Nei panni di Italo Calvino ho scritto una lettera a Babbo Natale, una lettera strana: non voglio chiederti nulla. Quest’anno voglio dare, voglio raccontare una storia.
Caro Babbo Natale,
sono Italo Calvino, proprio lui, cioè proprio io. Ti scrivo, da un’inesistenza ad un’altra: io morto da trent’anni, tu vivo una volta l’anno. Ti scrivo con leggerezza, ma non sottovalutare queste mie parole ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. E planare dall’alto, qui, mi riesce molto più facile.
Ti scrivo una lettera strana: non voglio chiederti nulla. Quest’anno voglio dare, voglio raccontarti una storia e – a quanto dicono – mi riesce bene.
Era la vigilia di Natale del 1963, ero a Milano, e come tutti gli anni a dicembre, a Milano, faceva freddo. Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
In quel periodo, con Elio Vittorini, lo conoscerai ne sono certo, facevamo Il manabò. Erano gli anni del boom, erano gli anni della neoavanguardia, delle polemiche fra Sanguineti e Pasolini. Il mondo stava cambiando sotto i nostri piedi e noi volevamo capirci qualcosa, ma cambiava troppo in fretta e noi gli correvamo dietro, ma non lo acchiappavamo mai. Era come quando, da bambini, giocavamo a rincorrerci, ma da grandi ci siamo dimenticati come vincerlo questo gioco.
Io avevo da poco scritto quell’articoletto che chiamai La sfida al labirinto e quasi fatalmente in quel ventiquattro dicembre millenovecentosessantatré mi persi fra le strade e la folla di Milano mentre rimuginavo sulle parole che avevo scritto, su come la letteratura doveva affrontare questo labirinto della modernità e uscirne, non arrendersi. Mentre vagavo senza meta mi imbattei in un mio vecchio amico. Si chiamava Marcovaldo. Mi raccontò che alla Sbav – dove lavorava – quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. E il malcapitato a doversi travestire da te fu proprio il mio amico.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. “Dapprincipio” pensava, “non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo!” Ma era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano più. Marcovaldo, allora, prese suo figlio Michelino, e iniziò il giro. Capitò in una grande villa e fu accolto dalla governante: “Gianfranco, su, Gianfranco” disse la governante, “hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?” “Trecentododici”, sospirò il bambino, senz’alzare gli occhi dal libro. – Metta lí “È il trecentododicesimo regalo che arriva” disse la governante.
Una volta usciti di casa Marcovaldo perse di vista sua figlio. A casa lo ritrovò insieme ai suoi fratelli, buono buono.
“Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato?”
“A casa, a prendere i regali… Si, i regali per quel bambino povero…”
“Eh! Chi?”
“Quello che se ne stava cosi triste… Quello della villa con l’albero di Natale…
“A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?”
“Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata”.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
“Figuriamoci!” disse Marcovaldo. “Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!”
“Sí, sí dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano…”
“E cos’erano?”
“Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…”
“E lui? “
“Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo!”
“Come?”
“Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…”
“Cos’era?”
“Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza… Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…”
“Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?”
“Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto più felice. Diceva: I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! Ha cominciato ad accenderli, e…”
“E…?”
“…ha dato fuoco a tutto!”
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. “Sono rovinato!”
L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivestì da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale.
“Presto! Bisogna sostituire i pacchi!” dissero i Capiufficio. “L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo! È stata una scoperta improvvisa del presidente, pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi… Quel che più conta è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino… Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell’entusiasmo…”
Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po’ più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.
Forse penserai che mi sono inventato tutto, che nulla di quanto ti ho raccontato è vero. Poco importa. Quel che conta è che il racconto del mio amico Marcovaldo mi ha aiutato a ritrovare la strada nel labirinto e ad orientarmi nella nebbia. Lui, che vive in periferia, ci è abituato alla nebbia, ci vede bene. Lungo la strada di casa continuai a pensare alla strana vicenda di Marcovaldo, non so se a te sarà utile in qualche modo, non so nemmeno se quella lepre l’abbia vista o l’abbia sognata.
In ogni caso questo Natale voglio fartelo io un regalo e ti dono questa storia. Con quest’augurio: l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Io ti auguro molto spazio.
Tuo,
Italo
[Per “fingere” questa lettera mi sono affidato principalmente al racconto “I figli di Babbo Natale” contenuto in Marcovaldo. A questo ho aggiunto alcune riflessioni e citazioni di Calvino contenute in altre opere o articoli cercando di non tradire troppo la figura dell’autore]
Immagine di copertina: Santa Claus di Steve Wilson