Dopo oltre mille repliche il monologo di Simonetta con Maurizio Micheli conserva l’intelligenza e l’ironia di una carta geografica di usi e costumi del mondo del teatro
Non sono molti gli spettacoli italiani che hanno superato la boa delle mille recite che sono tantissime basta mettersi a contarle e fanno paura: una, due, centodieci, cinquecento, settecento cinquanta, novecento dieci, etc. Certamente Arlecchino, il mitico Goldoni con Soleri, che detiene il Guinness dei primati e nessuno lo minaccia; certo Grease con la Rancia che nel musical è stato il più gettonato (è oltre le 1200) e continua la marcia (in gennaio torna per l’ennesima ma non ultima volta al Teatro della Luna) aggiornando i ricambi generazionali (seguono Aggiungi un posto a tavola e Rugantino, i due cult di Garinei e Giovannini). Non so se in passato alcuni best seller della così detta prosa hanno mai raggiunto questo vertice, forse Il diario di Anna Frankcon la Compagnia dei Giovani, o andando ancora indietro Siamo tutti milanesi di Fraccaroli con Besozzi, per non dire di certi long runner classici di Eduardo, che però sono stati allestiti con cast spesso nuovi. L’opera da tre soldi deve sommare le tre meravigliose edizioni strehleriane per avvicinarsi al traguardo, così come El Nost Milan, I giganti della montagna e Il giardino dei ciliegi.
Di sicuro oltre le mille cento e passa repliche è il monologo di Umberto Simonetta Mi voleva Strehler, con Maurizio Micheli che dal 1978, il teatrino di Piazza Beccaria che sembra riaprirà presto (debuttò al Gerolamo diretto allora dallo scrittore e umorista e paroliere di Gaber). Da quella data Micheli è l’unico e indiscusso interprete dello spiritoso testo ed ora è al Parenti nell’allestimento curato da Luca Sandri, una serie di recite esauritissime e perciò prolungate fino al 6 gennaio. Il monologo è sempre stata una gran risorsa: dipende dai budget (chiaro che costa meno), dal valore del testo, dalla geografia del luogo. Il Gerolamo, magnifica “bomboniera” che era chiamato, ex regno delle marionette Colla, era un teatrino minuscolo in cui il passaggio mimico vocale dall’attore in platea era diretto ed acquistava un plus valore speciale specie se spiritoso come nel caso del copione di Simonetta che in quegli anni 70-80 scrisse una serie di testi ironici sulla realtà sociale e sugli stereotipi giovanili (“Mi riunisco in assemblea” e “Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi” con Livia Cerini). Simonetta, autore di riviste in coppia con l’amico Zucconi, scrittore di best seller come Tirar mattina e Il Giovane normale, paroliere stracult del Cerutti Gino e di Barbera e champagne di gaberiana memoria, era un addetto ai lavori.
Che ironizza in questo caso su un attore chiamato per un provino da Strehler, genio temuto del nostro teatro per decenni, Verbo del Teatro: l’attore terrorizzato si prepara con shock nervoso al provino (un chorus line per single…), l’attesa diventa la nostra, ripensando alla sua mancata carriera e prendendo di mira i luoghi comuni del teatro di allora, in e off, ufficiale e ufficioso, in smoking o in mutande, colpendo sempre nel segno e conquistando anche il pubblico dei non addetti ai lavori. Tanto che anche oggi, mutate le coordinate delle compagnie e dei gruppi sperimentali e i luoghi stessi del teatro, lo spettacolo su Strehler (detto allora la Fata Turchina per il colore improbabile dei capelli) funziona ancora benissimo sia perché il Regista è ormai un mito irraggiungibile sia per l’eterna vitalità dell’attore Micheli, pugliese trapiantato a Milano che, complice un po’ di autobiografia, aggiunge ogni sera alla tirata sulla sfiga della giovane promessa, un pezzettino in più della sua esperienza e della costanza nell’osservazione psico somatica dei teatranti, gente matta (copyright Garinei e Giovannini) e simpatica, miniera di ricordi.
(Per il video si ringrazia Teatro Franco Parenti)
Mi voleva Strehler, con Maurizio Micheli, al Teatro Franco Parenti fino al 6 gennaio