Il Natale è alle spalle con il suo tradizionale corollario di pranzi e cene e regali e parenti e Poltrone per due su Italia 1.…
Il Natale è alle spalle con il suo tradizionale corollario di pranzi e cene e regali e parenti e Poltrone per due su Italia 1. Capodanno è alle porte. È tempo di bilanci. Che anno è stato, questo 2015, per Milano, dal punto di vista del “sistema dell’arte”?
Musei: una nuova stagione?
Cominciamo dalle note positive: l’anno che si conclude riconsegna una città arricchita di nuovi spazi museali, segno di vitalità che fa ben sperare. Nel volgere di dodici mesi hanno aperto i battenti la nuova Fondazione Prada targata Rem Koohlas, il Mudec (cioè, una volta per tutte, Museo delle Culture) di David Chipperfield e il nuovo museo dedicato alla Pietà Rondanini, nell’ex ospedale spagnolo del Castello Sforzesco. Storie ed esiti molto diversi: la Fondazione Prada ha conquistato senza apparente difficoltà un posto di riguardo nel cuore dei milanesi appassionati d’arte, forte della bellezza delle proprie strutture e di un manipolo di esposizioni temporanee impeccabili. Molto più accidentato il percorso del Mudec: le accuse reciproche tra l’amministrazione comunale e Chipperfield hanno occupato a lungo le pagine dei giornali, ancor prima che il museo fosse inaugurato. E anche i primi mesi non hanno convinto a pieno, tra la collezione permanente troppo sacrificata e esposizioni temporanee, da Barbie a Gaugin, piuttosto deludenti. Ma resta il fatto che un museo etnografico a Milano non esisteva, e ora sì. Ci sarà tempo per migliorare.
Il convitato di pietra in questa fioritura museale è Brera, al solito combattuta tra le miserie di un quotidiano assai complicato, nella cronica carenza di fondi e spazi, e i sogni di rilancio in grande stile: “la Grande Brera” è ormai diventato un animale mitologico, celebrata da miti e leggende, nessuno pensa di poterla mai incontrare nella realtà. La maggiore pinacoteca cittadina fatica a trovare un’identità che le permetta di valorizzare il suo strepitoso patrimonio e combattere la disaffezione di cittadini e turisti. Ora in quello che fu convento dei gesuiti è approdato un nuovo direttore, James Bradburne, museologo e manager anglo-canadese, reduce da quasi dieci anni alla guida del fiorentino Palazzo Strozzi: non si può che augurargli buona fortuna e pregare che tutto vada per il meglio.
Una menzione di disonore merita lo scriteriato scambio di Antonello con Foppa, promosso da Regione Lombardia e sponsorizzato da Sgarbi. Proprio così: un Antonello per un Foppa, come se fossero figurine. Il San Benedetto di Antonello da Messina lascia la Pinacoteca del Castello Sforzesco per raggiungere gli Uffizi; una Madonna col Bambino di Vincenzo Foppa compie il percorso inverso. Uno scambio che durerà quindici anni, con tanto di mostra celebrativa al Bagatti Valsecchi (incolpevole) per sancire l’accordo. L’obbiettivo dovrebbe essere ricomporre a Firenze un polittico di Antonello (nelle gallerie fiorentine si conservano infatti due tavole compagne del Santo). Solo che il polittico non si ricompone (perché manca la carpenteria originale, e non sappiamo neppure che forma avesse, in principio, il polittico); nel frattempo Milano si priva del suo unico Antonello e gli Uffizi del loro unico Foppa, acquistato appositamente, negli anni Settanta per colmare la lacuna di una raccolta che si voleva nazionale. Come se le collezioni non avessero una storia, da preservare.
Mostre e mostri
A perlustrare, come a volo d’uccello, i dodici mesi che si stanno per concludere, sorprende la quantità esorbitante di esposizioni d’arte che, complice Expo, hanno riempito i palazzi e i musei milanesi. Ma la questione è: il proliferare inesausto delle mostre d’arte (e delle mostre d’arte antica in special modo) è un fattore positivo? La risposta, almeno per noi, è decisamente no. Spostare le opere d’arte è sempre traumatico per le opere stesse: in gioco c’è la sopravvivenza materiale del patrimonio. Insomma, crediamo che le mostre vadano fatte se c’è una ragione per farle: se l’esposizione una a fianco a l’altra di opere normalmente lontane permette, attraverso l’accostamento, un accrescimento di senso e di comprensione; se la mostra rappresenta una possibilità di crescita culturale per i cittadini; se è sorretta da un serio progetto scientifico che ambisca a conciliare valorizzazione e tutela. Si assiste invece a una continua riproposizione di mostre-pacchetto, raccolte di opere più o meno belle, squadernate davanti agli occhi di visitatori inevitabilmente disorientati in nome di un ideale di fruizione estetica senza mediazioni; o, più prosaicamente, in nome delle leggi del marketing. Una quindicina d’anni fa, il grande storico dell’arte inglese Francis Haskell introduceva il suo ultimo libro, dedicato appunto alla storia delle esposizioni temporanee, con la visione angosciante di un cielo saturato dalle scie degli aerei che portano in giro per il mondo le opere d’arte. Ora la realtà si avvicina in maniera preoccupante a quella visione. Per questo, Tomaso Montanari ha chiesto a Babbo Natale, sul filo del paradosso, una moratoria di cinque anni alle mostre d’arte antica.
Tantissime esposizioni, si diceva. Si può provare a ripercorrere le maggiori, quelle che ci sono piaciute di più e quelle che non ci hanno convinto, un po’ a rotta di collo e con l’inevitabile brutalità della sintesi. Serial classic di Salvatore Settis a Prada è probabilmente la mostra dell’anno, raffinata e popolare insieme; raramente si vede un allestimento a tal punto funzionale rispetto all’idea interpretativa del curatore. Ci sono piaciute Hayez alle Gallerie d’Italia e Giotto a Palazzo Reale: in entrambi i casi si è riusciti a radunare una campionatura assai soddisfacente del pittore in oggetto, per raccontarne la storia con rigore. La grande madre di Massimiliano Gioni a Palazzo Reale (sotto egida Trussardi) aveva ampiezza di vedute e respiro da grande mostra internazionale. All’Hangar Bicocca un nuovo allestimento ha rilanciato e arricchito l’installazione dei Palazzi celesti di Anselm Kiefer: è ormai stabilmente una delle (poche) ragioni per cui Milano compare sulle carte dell’arte contemporanea, a livello mondiale. Ma non solo Kiefer; lo spazio sponsorizzato Pirelli ha proposto mostre personali di alto livello per artisti contemporanei al debutto in solitaria sui palcoscenici italiani: da Juan Munoz a Philippe Parreno a Petri Halilaj. Leonardo doveva essere il piatto forte dell’anno Expo; il risultato è stato un’esposizione faraonica, non esente dai rischi della retorica. Non tutte le opere esposte tenevano sul piano della qualità, non tutte erano funzionali al percorso dell’esposizione, non poche erano le pecche sul versante scientifico. Il racconto era sfilacciato e perfino noioso; eppure i disegni leonardeschi in mostra erano tanti, e meravigliosi. Ce ne si dimenticherà presto, e non era difficile prevederlo. Un allestimento infelice ha penalizzato la mostra su Mito e natura a Palazzo Reale. Il remake longhiano di Arte lombarda dai Visconti agli Sforza non reggeva il peso dell’ambizioso progetto espositivo, nonostante i tanti gioielli presenti.
A ricordarci che non c’è limite al peggio sta la fiera di paese montata da Sgarbi nel padiglione Eataly a Expo, sulla pelle di capolavori fatti confluire da tutta Italia per essere accatastati senza il ben che minimo criterio: memorabile per esempio l’idea di proiettare sul passato le partizioni amministrative odierne; come se avesse senso parlare di Toscana nel Quattrocento o Lombardia nel Cinquecento. Ma qui si è ormai in un campo che con le mostre d’arte non ha proprio nulla a che fare.
Immagine di copertina: David Tenier il Giovane, La galleria dell’Arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles (particolare), Vienna, Kunsthistorisches Museum