“Quo vado”, quarto film di Gennaro Nunziante con l’attore pugliese, è il ritratto divertente e sconfortante di un paese che si ama: e sogna il posto fisso
Non aspetterò l’immancabile rivalutazione critica postuma di Checco Zalone (ricordate Totò, Franchi&Ingrassia, e in tv il duo Tognazzi&Vianello) per dire che lo trovo un comico divertente, dai tempi quasi sempre giusti, di rado volgare, anche quando fa battute dirette sul sesso (e senza paragoni impietosi con i “Natale a…”), piuttosto centrato sull’Italia d’oggi.
Nel suo ultimo Quo vado, diretto come i tre precedenti film Cado dalle nubi, Che bella giornata e Sole a catinelle da Gennaro Nunziante (qui per la terza volta co-sceneggiatore), il Belpaese formato 2016 canta a squarciagola “La prima repubblica non si scorda mai”, simulando un Celentano d’annata, imitazione-cavallo di battaglia storico di Checco. Mettendo a fuoco, dopo un ventennio abbondante di bipolarismi all’arma bianca di ogni genere (etici, politici, culturali, etc.) una gran voglia di “volemose bene” che serpeggia ovunque, nonostante Lega e 5 Stelle (e forse anche per reazione a loro) e che è in fondo alla base, se non di Renzi, certo del renzismo di fatto, di quello che l’italiano medio capisce dell’ideologia del “partito della nazione”, del remiamo tutti dalla stessa parte per tirarci fuori dai guai.
Tutte cose che si possono non condividere, è ovvio: ma questa fotografia di un paese nella sua gran parte discretamente immobile, che sogna, come Checco, ancora e solo “il posto fisso”, è il pane di un attore, in particolare di un comico, che ha il compito, se non il dovere, di vederlo, capirlo e rappresentarlo. Cosa che Zalone fa. Se poi tutto questo sogno un po’ retrò lo condivide o no, francamente, sono fatti suoi.
“Quo vado” è un film semplice, fatto di molte gag, elementari forse, ma “di cinema”, non di battute televisive dette con sicumera davanti alla cinepresa, una storia che spazia dalla Norvegia a Lampedusa (resterà lo sketch del calciatore, unico migrante accolto al confine, scelto in una pletora di “inutili” laureati), dalla Puglia all’Africa, popolato di attori pure di nome che si prestano con misura a far da spalla di un capocomico forse un po’ “traditional”: da Sonia Bergamasco a Lino Banfi, da Maurizio Micheli a Paolo Pierobon.
Inseguendo gli incedibili viaggi di questa sorta di barone di Munchausen pugliese del lavoro a tempo indeterminato, disposto ad accettare qualsiasi destinazione, anche la più disagevole e improbabile, pur di non firmare l’odiosa lettera di dimissioni da dipendente della pubblica amministrazione, ci riconosciamo guardandoci a uno specchio per una volta non deformato. Grazie a un attore che conferma anche oggi la qualità storica e la fortuna della comicità meridionale (da Abatantuono ad Albanese, da Papaleo a Siani), che sarebbe forse piaciuto a Fellini e per il quale qualche milione di italiani in questi giorni è uscito di casa per andare al cinema. Se è ormai quasi l’unico per cui lo fanno (Disney o Star Wars a parte) è una pessima notizia. Ma non è certo colpa sua.