Dopo “The Act of Killing”, straordinario esperimento di cinema-verità sulla storia, Joshua Oppenheim gira un ideale, intimo seguito: dalla parte della vittime
A quasi un anno e mezzo dalla sua partecipazione alla Mostra del cinema di Venezia, dove vinse il premio speciale della giuria (cosa molto rara per un documentario) esce nelle sale italiane, grazie alla I Wonder The Look of Silence, secondo capitolo della bi-logia che il regista texano Joshua Oppenheimer ha dedicato ai massacri del generale golpista indonesiano Suharto, che a metà anni 60 uccise più di un milione di avversari politici, comunisti e non, spesso sottoponendoli a torture spaventose. Nel frattempo è stato visto e applaudito in tutto il mondo e ha appena avuto la nomination all’Oscar al miglior documentario, per la forza di ciò che dice e mostra, e per l’efficacia proprio di quei silenzi del titolo, che sullo schermo pesano come macigni, con cui il 40enne (coetaneo del regista) protagonista Adi ascolta le scuse, le omissioni, le smemorate risposte, in alcuni casi le orribili vanterie postume, di chi gli ha ucciso il fratello; Ramli, torturato ed eliminato nell’eccidio dello Snake River, opera del Komando Aksi (tutti episodi veri), lui non l’ha mai conosciuto, essendo nato anni dopo la fase più calda e tragica dei massacri.
Adi, che fa l’optometrista, mestiere legato al vedere, i film come la realtà più brutale, incontra carnefici (compreso un suo zio) e vittime, in primo luogo i suoi genitori ormai quasi centenari, distrutti come tanti da decenni di dolore e vergogna, per esser ancora vivi e non essersi ribellati – restando nell’ombra – alla morte di figli, genitori, mariti, mogli, amici. Parenti, magari uccisi da altri parenti. Ma l’approccio del film e il tono del suo protagonista sono di grande civiltà, mai un grido o un gesto aggressivo: rispetta in qualche modo la 50ennale, terribile convivenza di carnefici e vittime seguita a quei crimini, i primi al potere tuttora, alcuni peerfino orgogliosi dei loro crimini, gli altri sottomessi nell’ombra, tra paura e silenzi.
In The act of killing, nel 2012, Oppenheimer metteva in scena con straordinaria originalità tutto questo attraverso folli sequenze di film, in stile teatral-hollywoodiano, opera degli stessi carnefici, che con incredible, convinta incoscienza, re-interpretavano se stessi nei loro peggiori atti violenti, spesso rivendicandoli 50 anni dopo, perché frutto di ordini giusti: il comunismo era pericoloso e quei nemici, anche se loro familiari andavano fermati, sterminati in ogni modo. Qui invece a parlare, a mettersi in mostra sullo schermo, sono le vittime, e la rutilante, colorata espressività del crimine e della tortura, lascia il posto alla sofferenza, alla spossatezza della vecchiaia, al silenzio, ai mezzi toni di un colloquio lento, spezzettato ma non meno straziante, sconvolgente per ciò che dice e per come lo fa.
È stato scritto giustamente che i due film sono in qualche modo complementari, per gli opposti punti di vista e le diverse scelte di messa in scena, di toni e colori (c’è, nonostante tutto, un grande amore per il verde tenue, le tinte pastello di questa campagna indonesiana), di ritmo e forza espressiva. Così questo The Look of Silence può sembrare un film di minore efficacia, impatto. Ma non resterà meno in mente, rispetto al rutilante, iper-realista sabbah di sopraffazione e ferocia di The Act of Killing, il sommesso mondo familiare di Adi, dove una morte liberatrice aleggia fin dall’inizio un po’ su tutti i protagonisti della tragedia. Promessa anche di un silenzio, che è stato sì per 50 anni vergogna delle vittime e arroganza dei ciminali, ma che ora forse si impone, per pietas verso tutti.
The Look of Silence di Joshua Oppenheimer con Adi Rukum