“Good Kill” di Andrew Niccol con un bravo Ethan Hawke racconta la guerra americana in Medio Oriente, ma combattuta a Las Vegas, a 7mila km, nei bunker dove si guidano, via computer gli implacabili
Good Kill nel gergo dei piloti e dei cecchini americani significa “bel colpo”, andato a buon fine. Nell’omonimo film di Andrew Niccol i colpi li sparano quegli specialisti, spesso ex-comandanti d’aereo con molti mesi di esperienza al fronte , che alla guida di aerei speciali sorvolano a tre chilometri dal suolo i territori della lotta al terrorismo, dall’Afghanistan allo Yemen, per colpire umani e istallazioni con missili balistici ad alta precisione: una casa, un camioncino, un gruppo di persone, sospettati di attentare alla sicurezza nazionale.
Ma tutto ciò avviene a 7mila km di distanza dal bersaglio, perché stiamo parlando di chi fa la guerra usando i droni e li manovra stando chiuso in claustrofobici box, davanti a molti schermi di computer. Nel caso del maggiore Egan la cosa avviene alla periferia di Las Vegas, e grazie all’aria condizionata il deserto e la sua torrida aria non si fanno sentire. Non si rischia molto, qui, a differenza della prima linea, tranne la cosa più importante per certi aspetti, la propria salute mentale. Perchè questa guerra virtuale che fa morti veri, tra cui donne e bambini – scudi umani dicono i comandi, danni collaterali – vista da qui sembra quasi astratta, lontana, ma chi si è fatto sei “tour”, sei periodi sul campo e poi è stato messo a terra, vicino alla famiglia, ed è in crisi perché vuole tornare a volare, odia “combattere alla playstation” seguendo assurdi ordini della Cia.
Good Kill è un bel film indipendente che si regge soprattutto sul suo protagonista, Ethan Hawke, scrittore, regista e attore feticcio, in coppia con Julie Delpy, di Richard Linklater (per Boyhood lo scorso anno ha avuto la nomination all’Oscar, ma la statuetta l’aveva vinta nel 2001, da non protagonista, Training Day) che per la terza volta si fa dirigere dal neozelandese Andrew Niccol, regista di Gattaca e Lord of War e ottimo sceneggiatore di film apprezzabili come The Truman Show e The Terminal.
Siamo nei primi anni del 2000, la tragedia delle Torri Gemelle è ancora fresca e il medio Oriente è in fiamme, dall’Afghanistan allo Yemen all’Iraq e il film riprende il tema forte di un altro recente war movie americano interessante sulla guerra in Iraq (The Hart Locker di Kathryn Bigelow), centrato sull’impossibile rientro nella vita civile del reduce, e lo fa con argomenti forti, provocanti, e con una convincente prova di attori. Ma non esistono film americani sulle guerre mediorientali di inizio Duemila davvero pacifisti o antimilitaristi, in questo senso non si è mai andati oltre le confuse visioni pisco-filosofiche di Three Kings: Good Kill però supera almeno l’ambito più frequentato, quello della crisi esistenzial-comportamentale del reduce per porsi qualche problema che riguarda anche l’altro, gli altri, le vittime.
Non staremo per caso uccidendo un po’ troppi civili, e forse anche un po’ troppi nemici, e forse anche quelli sbagliati. Il maggiore Egan in realtà risolve la sua crisi uccidendone un altro, di nemico, ma in questo caso più odioso degli altri, perché l’ultimo jihadista che cadrà sotto i suoi lontanissimi colpi è anche un violentatore quotidiano, che alterna abusi familiari e attentati globali. E la reazione del maggiore sembra anche aver a che fare con i suoi sensi di colpa verso la moglie trascurata (January Jones), che a un certo punto lo lascia, ormai estraneo a lei, e porta i figli con sè a vivere a Reno con la sorella, e forse c’entra anche con una certa infatuazione di lui verso la collega Suarez (Zoe Kravitz), l’unica che condivide qualche barlume di umanità, anche nel buio della stanza dei giochi del potere tecnologico in armi.
Good Kill, di Andrew Niccol, con Ethan Hawke, Bruce Greenwood, Zoe Kravitz, Jake Abel, January Jones