Come si parla di violenza contro le donne? Lasciando spazio a esperienze e parole differenti. Tutte al maschile
Donna: «Ma chi ve lo fa fare? Perché degli uomini si occupano di violenza contro le donne?».
Uomo, uno degli autori della mostra: «È per quel sorriso che vede in quella foto» (ride).
Altra donna: «Lo fanno per essere felici».
Questo scambio avvenuto qualche giorno fa in un consiglio di zona di Milano, dove abbiamo portato la mostra Riconoscersi uomini – Liberarsi dalla violenza, mi sembra un frammento che riporta l’intera esperienza che stiamo vivendo. Parla appunto del nostro oggetto, la violenza di tanti uomini sulle donne che ha i numeri e le forme di una “guerra a bassa soglia”, una guerra non dichiarata contro le donne che attraversa il nostro Paese e in particolare le coppie, le famiglie, le nostre relazioni intime. E a me sembra che quando un Paese è in guerra bisogna uscirne immediatamente, dovrebbe essere la prima decisione politica, ma questa volontà non c’è ancora nella nostra società maschile. Però quello scambio tra donne e uomini, durante la visione della mostra, dice anche di una tensione maschile alla felicità nelle relazioni che è già il segno di un’altra cultura che si sta muovendo.
Dunque c’è una campagna, promossa quest’anno dalle associazioni Maschile Plurale che da molti anni si occupa di questo tema e da Officina e patrocinata per primo dal Comune di Milano, con cui proviamo a rappresentare questa violenza e il suo superamento in un modo molto diverso da tanta altra comunicazione. Infatti il modo in cui si parla della violenza è parte integrante del problema, dimostra il riconoscimento o meno delle sue radici. La domanda è se vogliamo vedere queste radici che affondano nella differenza dei corpi e nella cultura dominante del potere maschile sulle donne sia nella sfera intima, sessuale e familiare che in quella pubblica, lavorativa e politica. In Italia c’è stato un lunghissimo tempo di silenzio sulla violenza sessista, uno “strumento d’ordine” quasi invisibile. Poi le donne nei loro movimenti hanno rotto questo silenzio, però mi sembra che il discorso pubblico anche più recente non vada al cuore della questione maschile. Perché manchiamo noi uomini sulla scena della violenza, se non a titolo di straniero, di pazzo, di mostro, insomma di eccezione rassicurante. Oppure si mostrano uomini fuori da ogni contesto che si dissociano totalmente dalla loro ombra, integralmente buoni, che “proteggono le donne” (ma da chi, se non da se stessi?), che portano loro un altro fiore…
In questo senso la campagna di Maschile Plurale e Officina corrisponde a un’esperienza e ad una parola maschile differente. Direi che siamo uomini che hanno vissuto la libertà delle donne come valore anche per sé, oltre a ripensare alla propria maschilità nelle relazioni. Le relazioni, appunto, sono diventate il centro della nostra campagna, rivolta soprattutto agli uomini. Dodici foto che formano una mostra itinerante in diverse città d’Italia e collegata a incontri pubblici, un breve video di presentazione, una pagina facebook e un sito dedicato liberarsidallaviolenza.it : questo è il prodotto.
Abbiamo portato gli uomini in scena, in quelle relazioni con le donne che spesso degenerano in violenza maschile. C’è l’intimità e la distanza nella coppia, questo nodo dell’immaginario sessuale maschile e l’alternanza di vicino e lontano nell’esperienza amorosa. C’è anche la gestione della casa e la relazione di lavoro, quindi la domanda sulla condivisione del lavoro di cura e il valore che noi uomini sappiamo riconoscere o meno alle donne nel lavoro esterno. E in particolare c’è la cura dei figli che chiama in causa la paternità e il cambiamento dell’autorità maschile e poi la questione spinosa della separazione… in una parola, c’è la differenza tra uomini e donne. In ciascuna di queste scene, lui parla a lei con una breve scritta su un post-it, con un linguaggio semplice, confidenziale. Nelle parole di lui, abbiamo cercato di produrre dei “cortocircuiti” rispetto ai significati di alcune parole chiave della cultura maschile tradizionale.
Per esempio, c’è un padre che spinge il passeggino e dice «la tenerezza mi dà forza», un’immagine inedita di potenza maschile. L’altra scelta importante è stata quella di volgere la comunicazione in positivo, a testimoniare un altro modo di stare nelle relazioni. Per esempio un uomo separato dice «ti rispetto, anche se hai deciso di lasciarmi», in un’Italia di oggi in cui imparare a lasciarci è questione di vita o di morte per le donne. Peraltro questa dimensione di testimonianza è data anche dal fatto che gli uomini fotografati in queste scene “ci mettono la faccia”, non sono attori né testimonial ma siamo noi stessi, nostri amici ed ex studenti, uomini che mostrano le proprie esperienze di vita. Così, tanto con le donne che pongono la domanda ricorrente durante i nostri incontri: «Ma è reale quello che mostrate? Sì, in parte l’ho vissuto, ma non saprei», quanto con gli uomini che dicono «E’ anche la mia esperienza ma spesso non è così», cerchiamo di discutere questo scollamento, questa idea di mondo che starebbe da un’altra parte rispetto alla propria esperienza di vita. La nostra comunicazione tende invece a interrogare i singoli uomini su di sé, sulla possibilità di riconoscere il negativo quanto di saper vedere e raccontare il proprio desiderio di felicità nelle relazioni. All’opposto della violenza.