Stefano Malatesta racconta della Roma del cinema, degli americani, affascinante e un po’ cialtrona: da leggere mentre si sceglie chi correrà come sindaco della città in uno dei suoi momenti più difficili
Stefano Malatesta, nel suo libro, racconta di Quando Roma era un paradiso. Dopoguerra, lui ragazzino: quando si ricostruiva alla bell’e meglio, quando arrivavano gli americani, gli artisti, i grandi registi, quando nascevano borgate e trattorie, stabilimenti balneari per famigliole e starlette, un mondo che veniva così ben rappresentato dal cinema di Cinecittà, dalla produzione hollywoodiana di Quo Vadis fino a Roma città aperta di Roberto Rossellini, e che a sua volta dava da magiare e faceva ruotare intorno a sé l’’economia e l’immaginario.
Le prime pagine del libro sembrano un ironico affresco della cialtronaggine della Roma Capitale dei recenti scandali che, peraltro, questo fine settimana va al voto per scegliere il candidato sindaco di centrosinistra; vista con un cannocchiale di settant’anni è quasi più vivida, più efficace.
‘I turisti che cominciavano a tornare in Italia nel secondo dopoguerra erano ammirati e perplessi, e la perplessità era direttamente proporzionale alla meraviglia. La velocità con cui gran parte degli edifici danneggiati erano stati restaurati e le rovine occultate appariva a tutti sbalorditiva, anche se le ricostruzioni, viste da vicino, sembravano discendere più dal talento scenografico degli italiani, imbattibili nel sembrare più che nell’essere’.
E ancora, un affondo nella nostra ipocrisia: ‘Si diceva che gli italiani avessero perso la guerra. Ma questa doveva essere una leggenda metropolitana perché tutti in Italia, o quasi tutti, si comportavano non da perdenti, ma da vincenti. Dall’8 settembre del ’43 si sentivano in buona cattiva fede, alleati a pieno titolo degli inglesi e degli americani… E un generale alleato aveva commentato: “Se continua di questo passo, saranno loro a chiederci i danni”.
A scoprire Roma dopo il 1945 sono stati gli uomini del cinema, non gli scrittori come era successo invece nel primo dopoguerra a Parigi. Certo, ci vivevano Gore Vidal e Truman Capote, ma la vera invasione avvenne nel 1950 con l’arrivo delle maestranze di Quo Vadis a Cinecittà.
‘Uno sbarco perfettamente organizzato, con una logistica simile a quella di Guadalcanal nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale, che sbalordì gli italiani. In meno di sei mesi dovevano produrre il film più colossale mai realizzato dalla industria cinematografica: Quo vadis?’.
Hollywood aveva scelto Roma per ragioni fiscali, ma la trasformò in un enorme set cinematografico: nei Fori stazionavano comparse vestite da legionari, se uno andava sull’Appia Antica trovava ristoranti con i nomi di Tabernae e i camerieri ti parlavano in latino maccheronico.
Si giravano colossal a non finire, Cleopatra e Ben-Hur tanto per citarne alcuni. E il cinema fece da locomotiva a tutte le attività. Non solo quello dei cineasti, ma anche quello dei cinematografari, personaggi inattendibili, notoriamente bugiardi ma indispensabili, immortalati in una famosa battuta di Ennio Flaiano: “Si fa il film, certo, certissimo, anzi probabile”.
In questo mondo, truffe e truffatori erano all’ordine del giorno. Un esempio che azzera i furbetti del quartierino di oggi: Salvo d’Angelo, produttore di Fabiola, diretto da Alessandro Blasetti e costato una follia, era riuscito ad affittare non si sa come Castel sant’Angelo, dove aveva sistemato il suo studio. Guidava una grande macchina bianca, vestiva solo abiti bianchi e qualcuno lo scambiava per il papa. Quando doveva accogliere i grandi produttori a Castel sant’Angelo, faceva preparare dei tavoli con trionfi di cacciagione come immaginava che fossero i pranzi a Versailles durante il regno di Luigi XIV. Altro che le volgari festicciole de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.
Dopo Quo vadis, dopo Vacanze Romane che lanciò Audrey Hepurn, tutti gli americani erano pazzi della città eterna e del suo train de vie. Passeggiando per via Condotti si poteva incontrare Clark Gable che andava a farsi fare le camice da Battistoni, mentre David Niven e Cary Grant, i divi più eleganti, compravano i mocassini in cuoio grasso e le cravatte da Franceschini. Ava Gardner andava dalle sorelle Fontana e Sofia Loren preferiva Emilio Schubert, ma il più elegante di tutti era Roberto Cappucci e le donne più sofisticate del mondo sognavano un suo abito.
Se gli americani amavano i romani, erano ricambiati totalmente da questa popolazione definita cinica e disincantata, ma che per l’America aveva perso la testa. E il segno di questa passione è riassunto magistralmente da Un americano a Roma con un impareggiabile Alberto Sordi.