Room: coi traumi di Joy nella stanza dell’Oscar

In Cinema

La 26enne Brie Larson, fresca di statuetta e Jacob Tremblay, 10 anni a ottobre, perfetti protagonisti del noir di Abrahamson (“Frank”) ispirato a un fatto vero

Ispirato a fatti realmente accaduti in Austria (l’oramai famigerato Caso Fritzl), poi tradotti in un libro firmato da Emma Donoghue, Room di Lenny Abrahamson è probabilmente il caso cinematografico del 2015. Perché, dopo aver vinto l’importante Toronto Film Festival, ha viaggiato grazie al passaparola fino all’appena conclusa notte degli Oscar, in cui la sua protagonista Brie Larson è stata incoronata miglior attrice dell’anno. Portando complessivamente a casa quattro candidature molto importanti (miglior film, regia e sceneggiatura non originale, oltre alla primadonna) per un curioso dramma familiare che inevitabilmente farà molto parlare di sé.

La vicenda è semplice: il piccolo Jack (Jacob Tremblay) vive assieme alla madre Joy (Brie Larson) in una piccola stanza con bagno, spoglia ed essenziale, caratterizzata soprattutto da un curiosa finestra sul tetto. La crescita (quasi normale) del protagonista, nato in quel luogo e mai uscito, dovrà scontrarsi con una realtà terribile. La ragazza anni prima è stata rapita, sequestrata in un capanno, e violentata diverse volte. Ma Joy s’impegna in tutti i modi affinché il proprio bambino cresca “normalmente”, lontano dall’uomo nero e soprattutto inconsapevole di ciò che lo potrebbe aspettare all’esterno.

Un capitolo a parte meritano gli attori: Brie Larson e Jacob Tremblay godono fin da subito di un’alchimia particolare, che ovviamente ha un influsso molto positivo sul film. È un legame difficile da portare in scena, quello tra una madre e un figlio costretti a vivere una situazione al limite, ma i due giovani interpreti fanno un ottimo lavoro. Rende la prova ancor più delicata il rapido mutare del loro sentimento, causato soprattutto dagli eventi esterni che stravolgono molto rapidamente il rapporto. E lo spettatore verrà colpito dal totale ribaltamento e dalla maturità con cui il piccolo Jack affronterà il disagio psicofisico della madre. L’Oscar alla 26enne californiana Larson, al suo primo film davvero importante, è stato forse un po’ prematuro, ma è indiscutibile che qui abbia dimostrato (con sporadiche cadute di stile) di sapersi calare al meglio in ruolo complessi e delicato.

Qualche dubbio semmai sulla prova di Abrahamson, 50enne regista e sceneggiatore irlandese, conosciuto finora soprattutto per l’eccentrico Frank con Michael Fassbender: la sua è una pellicola emotivamente importante, narrativamente scorrevole, ma di fatto spezzata in due. Si avverte fastidiosamente un cambio di ritmo tra un primo blocco ben scritto e coinvolgente, e un secondo assai più retorico e farraginoso. Probabilmente era un difetto ineludibile fin dal soggetto: la storia, tratta da un libro che a sua volta è ispirato a un fatto realmente accaduto, si prestava facilmente a frettolose (e un po’ superficiali) analisi del disagio dovuto alla storia drammatica di lei.

Peccato, perché dopo i primi minuti le cose sembravano volgere al meglio. Anche e soprattutto per merito di una messa in scena essenziale, tetra e all’insegna del “non visto”. Il regista gioca per tutto l’arco della vicenda a escludere alcuni soggetti dall’inquadratura; una scelta mirata, che ha come obiettivo quello di far immedesimare lo spettatore al massimo. Nei panni soprattutto del piccolo protagonista, che non vede mai il proprio carnefice e non comprende il dolore della madre.

Room, di Lenny Abrahamson con Brie Larson, Jacob Tremblay, William H. Macy, Joan Allen, Megan Park

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