Vergate di suo pugno, le memorie di un grande tragico dell’epopea jazz a cui la musica non bastò. Nonostante l’affetto e la stima che lo circondavano
Sembra proprio che nella vita tormentata di Chet Baker, raccontata nell’autobiografia Come se avessi le ali (Minimum fax), la musica sia stata il solo attimo di quiete, l’elemento in grado di fornire l’equilibrio necessario all’intuizione, l’unico vero momento in cui la sua anima poteva permettersi la libera espressione.
Sono state consumate pagine e pagine di giornali scandalistici sulla sua vita dissoluta, sugli arresti per droga, sulla passione per le belle donne e per le belle auto, su tutto ciò che poteva ricondurlo al modello del “bello e dannato”, del James Dean con la tromba in mano. Viene però da chiedersi: quando le luci dei riflettori si spengono, quando le dita smettono di fremere sullo strumento ed è terminata anche l’ultima dose, cosa resta del buon Chet?
«C’è sempre in una persona molto più di quello che il pubblico riesce a vedere, e mai come nel caso di Chet Baker si può fare questa affermazione. Come moglie di Chet, posso dire di averlo toccato con mano», chiosa la fedelissima Carol nella breve e accorata introduzione alle memorie del defunto trombettista.
La voce più autentica di Baker è stata ritrovata in forma di appunti olografi nel 1998, dieci anni dopo la sua morte. I capitoli del libro sono accompagnati dalla sua stessa grafia, a tratti snella, a tratti frettolosa e sgraziata, e ci conducono attraverso i suoi ricordi d’infanzia, l’esercito, l’approccio alla tromba, fino a una più didascalica e dettagliata serie di eventi che va dal 1946 al 1963.
Completano il volume due interessanti testimonianze di jazzisti italiani. La riflessione di Paolo Fresu, intitolata Qualcosa di incompiuto e sfuggevole, si concentra sulla paradossale forza della fragilità di Baker, sul suo trombettismo ricco «di poesia e di pathos», e culmina nel racconto dell’incontro avuto con Chet sul palco del Festival Jazz di Sanremo.
Segue il saggio di Enrico Rava Con la magia in tasca, una sostanziosa documentazione della carriera di Baker attraverso gli occhi di chi ha avuto la possibilità non solo di ascoltarlo dal vivo ma soprattutto di condividervi il palco.
Nel guardare le foto degli ultimi anni di Baker si resta perplessi: il deterioramento fisico è impressionante, il viso è appassito sotto una coltre spessa di rughe, gli occhi sono acquosi e infossati. Un uomo di neanche 60 anni con le sembianze di una persona molto più anziana. Tuttavia, leggendo questa sorta di diario raccolto in poco più di un centinaio di pagine, ci si rende conto che il jazzista dallo stile memorabile ha vissuto, anche solo nei diciassette anni documentati, più esperienze di quante un uomo comune possa vivere in media in un’intera vita.
Il tono è colloquiale come se si trattasse di amichevoli confessioni, senza inutili orpelli o dimostrazioni di grandezza: il modo di narrare riflette in pieno il suo modo di suonare, lirico, pacato e accattivante. Le impressioni vengono rilasciate con semplicità e immediatezza in qualsiasi contesto, e rivelano l’intricata e contraddittoria personalità di Baker: tanto malizioso nel raccontare l’incontro con la prima moglie Charlaine quanto sentimentale nel descrivere la nascita del figlio avuto con Carol, ferino e fuori controllo quando racconta della sua dipendenza ma incredibilmente lucido nel ricordare gli insegnamenti appresi in fatto di musica.
Anche i grandi musicisti con cui Chet Baker ha avuto a che fare sono descritti attraverso l’appassionante lente della confidenzialità. Si parte dall’incontro con un mansueto Jimmy Rowles (dal quale Chet afferma di aver appreso il suonare «con semplicità» e senza affanno), che accoglie Chet ogni qual volta quest’ultimo gli piomba in casa senza preavviso per eseguire qualche brano, fino al malizioso Freddie Fisher, stretto nella morsa del dixie e felicemente accompagnato sul palco da un materassino a forma di seni femminili, passando dall’irascibile e strafatto Gerry Mulligan, ai tempi del loro fertilissimo connubio, senza dimenticare l’aneddotica descrizione del grande Charlie Parker, che si mangia una dozzina di tacos con salsa verde o che fa cacciare l’intera band dal club per un contenzioso con il proprietario (indimenticabili in tal senso le parole di Baker: «Oh Bird, con te non ci si annoiava mai»).
Si assiste infine all’inesorabile declino verso la dipendenza, accolta con noncurante rassegnazione da parte del pioniere del cool jazz: si infittiscono gli episodi di arresti nel corso della lettura, e anche quelli di sentenze e tribunali, e la musica sembra non occupare più il posto di sola e incontrastata protagonista.
Triste ma vera cupio dissolvi destinata a tornare, fino all’ultimo tragico “folle volo” dalla finestra dell’albergo di Amsterdam. Quando pensare di avere le ali non è più sufficiente.
Chet Baker Come se avessi le ali (Minimum fax, 126 pagine, 15 euro)
Immagine di copertina dall’album In a soulful mood di Chet Baker