Due napoletani per eccellenza, accesi da vivo fuoco, in scena al Piccolo raccontando la loro città e le sue mille contraddizioni… e il di lei glorioso patrono.
Roberto Saviano incontra Mimmo Borrelli? Galeotto fu Toni Servillo! O almeno così si vocifera tra gli addetti ai lavori. Ad avvalorare questa tesi ci sono almeno due precedenti di rilievo: da una parte Gomorra – il film, beninteso – di cui il Toni nazionale fu attore, dall’altra A’sciaveca, la poesia di Borrelli magistralmente interpretata da Servillo in uno dei suoi spettacoli più intensi dove, testi alla mano, “legge Napoli”. Se a questo si aggiunge poi la prova indiziaria della presenza del fratello Peppe alla prima milanese di Sanghenapule, l’ipotesi di una “benedizione” sembra prendere ulteriormente forma. La verità però è che poco importa se all’origine della collaborazione del duo ci sia stato o meno lo zampino dell’artista casertano: il matrimonio artistico tra Roberto Saviano e Mimmo Borrelli in qualche modo s’aveva comunque da fare.
Ad accumunarli infatti, come sottolinea il Piccolo Teatro dal suo sito, non è soltanto una prossimità anagrafico-geografica (entrambi classe 1979, entrambi di area partenopea), ma anche un percorso artistico che ha più di un punto di contatto. A cominciare dalla centralità che la parola occupa nel loro operare: se tutti conosciamo la risonanza e il valore civile della voce di Saviano, altrettanto engagé e degna di nota (benché meno popolare) è l’abilità drammaturgica di Borrelli che ha fatto del suo “versificare teatrale” una delle forme più interessanti con cui interrogare il contemporaneo, mostrandone e denunciandone gli aspetti meno accomodanti.
Fatto rimane che la parola, nell’esperienza di entrambi, da mezzo espressivo è diventata qualcos’altro, si è fatta arma, grimaldello, strumento atto a scassinare la coscienza del lettore/spettatore per richiamarla al proprio dovere civico, oltre che intellettuale. E non sorprenda che i due siano pervenuti a un risultato analogo da ambiti professionali diversi: esperienze recenti ci hanno insegnato che tra giornalismo e teatro il passo è più breve di quel che si potrebbe credere. Basti citare il nome di Marco Travaglio che con È stato la mafia prima e Slurp poi (ancora in tournée) ha calcato diversi palcoscenici italiani. Come a dire: se un tempo era un Marco Paolini a dare visibilità e voce alla cronaca e alle inchieste (e nessun giornalista si sarebbe mai sognato di affiancarlo sul palco), oggi è più probabile che sia un Roberto Saviano a dare risalto al teatro intimamente civile di Borrelli. Poco male. Ciò che conta in fondo è che la rappresentazione scenica sia efficace e non risenta di questa sua nuova identità bipolare.
Nel tentativo di scongiurare questa eventualità, il tandem Saviano-Borrelli sceglie la via della “trasparenza” e, data anche la gestazione sui generis dello spettacolo – a causa dei molteplici impegni ma anche dall’impossibilità di Saviano di fermarsi troppo a lungo nello stesso luogo, i due hanno lavorato per lo più separatamente –, fa procedere il racconto della “Vita straordinaria di San Gennaro” su due binari ben distinti. È così che all’oratoria piana, limpida e quasi didascalica dell’autore di Gomorra, qui in veste di narratore, fa da controcanto l’eloquio magmatico ed eruttivo dell’attore di Malacrescita, il cui compito sembra essere quello di esemplificare col proprio, potentissimo, rappresentare, le parole del compagno.
Ne risulta un format che è commistione insolita di nuovo e antico, un impianto narrativo che sta a metà tra la trasmissione televisivo-divulgativa e il dramma allegorico: Saviano racconta di Gennaro che viene decapitato alla solfatara di Pozzuoli ed ecco Borrelli che, falce doppia alla mano, dà vita a un boia/Thànatos che biascica una nenia sofferente; Saviano illustra di come i Napoletani credessero che il Vesuvio si fosse originato dall’impatto di Lucifero caduto dal Paradiso, e subito Borrelli, agghindato da principe delle tenebre (una mise che nulla ha da invidiare a quella di Vinicio Capossela in certi suoi concerti) dà voce a un Demonio di straordinaria umanità. E così via, attraverso i secoli e gli eventi storici che hanno plasmato l’identità, sfaccettata e ambigua, della città di cui San Gennaro non è solo protettore, ma anche e soprattutto emblema.
Già perché Gennaro è un santo comprensivo, capace di accogliere in sé le contraddizioni dell’essere umano, di far proprie le sue debolezze e le sue imprecazioni, le passioni e le convinzioni, convertendole poi in carisma, in dottrina, perfino in ideologia rivoluzionaria tanto da diventare simbolo di libertà nella Repubblica Napoletana del 1799. Un santo laico, in fondo, il cui miracolo – quel sangue che da grumo si fa liquido – è un inno al fluire carsico della vita terrena, alla sua irriducibilità. E irriducibile è anche il bellissimo monologo finale, che Borrelli recupera dal suo precedente Napucalisse – segno che la collaborazione con Saviano è anche un’utile occasione di “rivalutazione” del proprio operato –. Un torrente di parole e gesti che è insieme grande performance attorale e condensato di tutta la sua poetica.
Di Borrelli, di Saviano e di tutta la città di Napoli, che se qualcuno definiva dai “mille colori”, Curzio Malaparte nel bellissimo La Pelle chiamava la più misteriosa città d’Europa. “È la sola città del mondo antico – scriveva Malaparte – che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. […] Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. […]. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli”.
Non ci resta che viverla.
Sanghenapule, di Roberto Saviano e Mimmo Borrelli, al Piccolo Teatro fino al 17 aprile