Candidato all’Oscar come miglior film straniero, un dramma che dipinge magistralmente l’anacronismo di un diritto in cui la donna è proprietà dell’uomo.
Viviane ha abbandonato il domicilio coniugale per incompatibilità col marito Elisha e da tre anni cerca di ottenere il divorzio. Ma in Israele non esiste il matrimonio civile. La legge religiosa in vigore sancisce che soltanto l’uomo può concedere la separazione. E lui è deciso a dire no. Ultimo capitolo della trilogia iniziata con To Take a Wife e proseguita con Seven Days, Viviane è un film forte nella tematica quanto elegante e delicato nei toni; proprio come la sua protagonista, interpretata da un’intensissima Ronit Elkabetz che insieme al fratello Shlomi firma sceneggiatura e regia. Passato ai festival di Cannes e a Toronto, candidato israeliano all’Oscar per il miglior film straniero, è un dramma legale e personale, che dipinge magistralmente l’anacronismo di un diritto in cui la donna è proprietà dell’uomo, e ricorda il mito di Antigone nella tenace opposizione della sua eroina a una norma antiquata. L’intento del tribunale rabbinico infatti è quello di preservare la «pace domestica» a qualunque costo. E a pagare il prezzo più alto è la moglie: per lei l’unico modo di non essere bandita dalla società è agire secondo le regole, e ubbidire al tribunale rabbinico.
Il film inizia, significativamente, con l’assenza di Viviane. Il marito (un bravissimo Simon Abkarian) e il suo avvocato parlano di lei e con lei: ma la protagonista resta fuori campo, per sottolineare la negazione del diritto di esistere di questa donna in un sistema giudiziario che è prerogativa degli uomini. Solo al momento del rifiuto della richiesta di divorzio, appare il suo volto, pallido e sofferente, ma serenamente determinato.
Il film si colloca quasi tutto in una sterile, anonima stanza bianca, mentre fuori piove senza sosta. Eppure dentro quell’aula di tribunale ci sono mondi interi: la storia esiste ben oltre i dialoghi, vive negli occhi degli interpreti. E sono proprio quelle espressioni, spesso dritte in macchina, verso il pubblico, a creare movimento e immediatezza. Il racconto è girato in soggettiva, e i primi piani prevalgono su tutto e tutti: il processo è una battaglia all’ultimo sguardo, in cui lo spettatore non può fare a meno di sentirsi coinvolto. Merito anche di una scrittura raffinata e di un’alternanza di registri calibrata alla perfezione: l’essenza è drammatica, la ritualità del linguaggio processuale è opprimente, però l’atmosfera viene più di una volta alleggerita dai toni ironici e paradossali dello script e dei dialoghi, che sottolineano l’assurdità dello svolgimento: è amaramente divertente e teatrale per esempio la sfilata dei testimoni, chiamati a dire la loro sui due coniugi: parenti, amici, vicini di casa, compongono un carosello di interventi che a tratti sfiora di folklore, sottolineando molto bene, e a volte persino involontariamente, la disparità del rapporto tra marito e moglie.
Il tempo della storia e del racconto filmico è scandito inesorabilmente da cartelli che identificano il trascorrere di settimane, mesi. Per cinque anni Viviane è condannata a vivere in questa sorta di prigione sociale, finché, esasperata, compie un involontario e silenzioso atto di ribellione: abituata a portare abiti scuri, ne indossa uno rosso. E, senza pensarci, scioglie i lunghi capelli neri, davanti ai rabbini. Un gesto considerato irriverente e sfrontato, che è invece soprattutto indicativo di una grande stanchezza. Gli autori spiegano che la storia di Viviane «è anche una metafora della condizione delle donne in generale, che si considerano “imprigionate a vita” dalla legge». Il processo si trascina tra udienze saltate, pause, rinvii, che sfiancano persino i giudici, fino al confronto finale dove maschere e formalità finalmente cadono. Dove, stretta tra l’intransigenza del marito e l’ambiguità del giudici, Viviane deciderà di “comprare” la sua libertà rinunciando alla sua stessa libertà.
Viviane di Ronit e Shlomi Elkabetz, con Ronit Elkabetz, Simon Abkarian