Ecco la sesta puntata della nostra rubrica “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo e lo commenterà per noi, spiegandoci i motivi della sua scelta. Ogni testo sarà accompagnato da un disegno di Carlotta Broglio, realizzato appositamente per Cultweek, che vuole essere un’ulteriore lettura della poesia. Oggi Francesco Tomada legge un testo di Wisława Szymborska
Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.
(Fotografia dell’11 settembre, Wisława Szymborska, da La gioia di scrivere, tutte le poesie (1945-2009), Gli Adelphi. Traduzione di Pietro Marchesani)
Se la poesia ha come intento ultimo quello di comunicare, declinando questo scopo in ciascuna delle forme espressive possibili, allora un posto di particolare riguardo deve essere riservato alla poesia civile, sociale, a quella cioè che – secondo una classificazione sicuramente semplicistica ma efficace – si propone di affrontare temi e problemi che in qualche modo appartengano a tutti, sia come individui, sia come membri di una comunità ristretta o allargata. Eppure questo tipo di poesia, per quanto encomiabile negli intenti, corre spesso il rischio all’atto pratico di diventare didattica, didascalica, in alcuni casi anche scontata nel suo dipanarsi. Quando riesce ad unire spontaneità – almeno apparente – e contenuto, quasi sempre prende spunto da un avvenimento individuale, oppure uno di altri ma vissuto come se fosse individuale, e a costruire, a partire da questo, un senso di appartenenza che nasce istintivamente dentro il lettore e lo fa sentire come persona inserita in un contesto più ampio di quello singolare, riuscendo così a coniugare empatia e messaggio.
Queste piccole e personali considerazioni mi servono per spiegare come mai la scelta sia caduta su Fotografia dell’11 settembre di Wisława Szymborska: una poesia famosa di un’autrice celeberrima, forse tra i pochissimi poeti che in tempi recenti siano riusciti ad ottenere un ampio riconoscimento anche presso il grande pubblico. In effetti quella di Wisława Szymborska è una poesia decisamente fruibile, lineare e in apparenza semplice, anche se questa semplicità è in realtà il frutto di un lungo e minuzioso lavoro sia sui contenuti, sia sulla lingua utilizzata. Allo stesso modo sono comuni anche i temi trattati, e come giustamente ha scritto Annagloria Del Piano “il suo “io” poetico è sempre “io”, uomo, e non è mai “io, Wisława”: la poetessa polacca è stata cioè in grado di compiere quel processo di immedesimazione che pone l’autore sullo stesso piano del lettore, e che ha come risultato in quest’ultimo la generazione dall’interno di un forte senso di appartenenza. Nel caso di Fotografia dell’11 settembre questo passaggio, mi pare, raggiunge un vertice assoluto per tutta una serie di motivi.
Prima di tutto è ovvio che Wisława Szymborska non era lì quell’11 settembre, né ha provato l’emozione tragica di quell’ultimo volo: lo ha vissuto attraverso le immagini esattamente come miliardi di altre persone, eppure da quella osservazione, da quella fotografia è riuscita a trarre qualche cosa che nessuno, fra quei miliardi di persone, è stato in grado di definire con tanta chiarezza, pur provandolo probabilmente in forma embrionale. Ricordo inoltre che il testo venne pubblicato a breve distanza dai fatti, segno di una scrittura di getto ma non casuale, frutto piuttosto di un immediato concretizzarsi non solo di grandi doti letterarie, ma soprattutto, verrebbe da dire, di un talento di umanità.
Si tratta dunque di una fotografia su una fotografia, che però non contiene nessun atto di accusa esplicito per una tragedia che ha avuto come causa la malvagità dell’uomo sull’uomo. Una fotografia che in sé ha il pregio, per quanto inutile, di mantenere in vita per sempre quelle persone colte un attimo prima di morire per un gesto di disperazione:
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
È questa una piccola illusione, che però ha quantomeno il pregio della persistenza ed una briciola di riserbo nel raccontare una tragedia senza svelare i volti ed i nomi delle persone coinvolte. Anche qui infatti sono loro, sono tanti e non uno, vengono accomunati dal destino e ma loro nome è “uno, due”, “ancora qualcuno”.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Restano, appunto. E lo fanno “nella sfera dell’aria”, l’elemento che fra tutti è quello più ostile all’uomo e al suo desiderio di volare. Questo invece è un volo che non diventa caduta, è una possibilità – anche se sappiamo tutti benissimo che si rivela senza soluzione – che qui ancora non si chiude, è insieme desiderio, speranza e idea di salvezza.
Dicevo prima come il miracolo della poesia spesso si compia quando il poeta riesce a diventare altro da sé, e sia poi in grado di restituire questo “altro da sé” in modo che diventi patrimonio condiviso, che rientri in moltissimi altri “sé”. Wisława Szymborska è capace di farlo con una immediatezza destabilizzante:
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Gli spiccioli e le chiavi sono presenti nelle tasche di tutti. Cadono, si perdono, e quell’evento quasi abituale ed insignificante qui diventa l’avvenire della tragedia, colto in un particolare che ci rende immediato e riconoscibile come sarebbe stato essere lì. Come è capitato a loro sarebbe potuto accadere a noi, in fondo anche un evento così immenso quando viene riportato alla vita di ciascuno può essere scomposto in piccoli accadimenti banali che però assumono un senso molto più grande. E di fronte a tutto questo c’è ancora il tentativo quasi disperato di lasciare aperta la speranza per una via di fuga, “c’è abbastanza tempo”, così come noi, guardando davanti agli schermi quei corpi cadere in una situazione irreale, ci chiedevamo se davvero fosse possibile evitare la fine, e avremmo voluto fare qualcosa di utile, di necessario.
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.
Quel “qualcosa” però non esisteva. Lo sapevamo noi, lo sapeva Wisława Szymborska, che però in questa meravigliosa chiusa rende dapprima omaggio alle vittime perpetuandone il volo, per poi concludere con uno dei versi più belli (qui si può usare a proposito un aggettivo così banalizzato) che mi sia dato di ricordare. È un gioco di parole (l’ultima frase che afferma di non esserlo), un paradosso (uno di quei paradossi così frequenti nella sua poesia), ma soprattutto spalanca la strada ad un silenzio di rispetto, di commozione e di lutto, lasciando una sospensione che diventa voragine da riempire con quella pietas di cui ogni uomo avrebbe diritto.
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