“Le confessioni” di Roberto Andò, metà thriller blasfemo e metà dramma socio-politico, ritrova in Toni un grande protagonista: la sua sfida ai potenti del mondo, intrecciata con la morte misteriosa del superbanchiere Daniel Auteuil, propone al pubblico citazioni dotte e interrogativi inquietanti
Toni Servillo dismette gli abiti scuri di Jep Gambardella e indossa il saio chiaro di Roberto Salus, misteriosamente invitato a un G8 di potenti dell’economia mondiale pronti a varare una manovra segreta che avrà conseguenze devastanti per alcuni paesi. Otto ministri, il direttore del fondo monetario internazionale, un monaco, una rockstar e una famosa scrittrice di libri per bambini, queste le marionette di cui Roberto Andò regge le fila in Le confessioni, naturale prosecuzione di Viva La Libertà, di cui abbandona però il registro comico e a tratti disimpegnato.
Dalla politica “pubblica”, fatta di interviste e comizi, i riflettori si spostano sulle scelte occulte e impenetrabili di una manciata di anime malvage, chi più chi meno, cui si oppone la salute morale del monaco, portatore già nel nome del senso dell’opera sua (salus, salvezza). Proprio questo termine è la chiave di volta di uno dei (molti) temi indagati da Andò: la salvezza dell’uomo politico è la naturale conseguenza del benessere fisico e mentale del singolo, se le radici sono marce non possiamo aspettarci un ramo rigoglioso.
La vicenda parte quando il superbanchiere (Daniel Auteuil) si confessa col monaco, e l’evento è così straordinario che poco dopo muore. I sospetti sono quindi tutti attorno al Padre, religioso sui generis, alla Gugliemo da Baskerville de Il nome della rosa: prima di prendere i voti brillante era stato matematico, ora è un devoto scrittore dalle idee clamorose, che si concede qualche sigaretta quando non lo vedono.
L’intelaiatura narrativa, estetica e fotografica è quella dell’uno contro tutti: il candore di Salus contro gli smoking scuri, il suo silenzio, la sua renitenza contro i vani chiacchiericci e le dichiarazioni altisonanti dei politici. Alle frasi senza senso ribatte con mitragliate di citazioni e riferimenti, rebus e indovinelli colti, che lasciano senza parole il suo interlocutore (e anche il povero pubblico). Spicca nell’opera un senso di calma e quiete innaturale, come se l’estetica di Maurizio Calvesi, alla fotografia, fosse stata contaminata dall’etica ovattata del monaco. In questo senso l’opera è forte di una dimensione intimistica, introdotta fin dal titolo, che stringe l’occhiolino alle confessioni agostiniane e ai Pensieri di Pascal.
Un uno contro tutti reso come il dialogo in palcoscenico di due protagonisti di una pièce teatrale (non sarà certo un caso che Andò oscilli tra cinema e teatro): da un lato il monaco, uno delle due centinaia di certosini superstiti, dall’altra Auteuil, quale sergente di un plotone che schiera otto suoi piccoli surrogati.
E ancora una volta Andò ritrova in un alienato la chiave di volta, nella malattia mentale la vera sanità: se in Viva la libertà il pazzo fratello gemello del protagonista riusciva a salvare un partito dal tracollo, in Le confessioni il vecchio e demente padrone dell’albergo troverà la prova del nove per far cadere ogni accusa sul buon Salus.
Trovano spazio nel racconto sparuti e incostanti attimi di stranezze e bizzarrie tutte italiane, parentesi gradite in una narrazione che oscilla tra il thriller blasfemo ed il dramma disimpegnato. Tutto il film si muove sul doppio binario del realistico e del visionario, tangibile ed immaginato, probabile e fantastico, memore di una staffetta felliniana di cui Andò ha appena preso il testimone.