Una drag nella rivoluzione di Kurt Weill

In Teatro

Sessant’anni fa, con Brecht in sala in via Rovello, dirigeva Bruno Maderna. Questo basta a giustificare la necessità di un articolo dedicato alla resa musicale…

Sessant’anni fa, con Brecht in sala in via Rovello, dirigeva Bruno Maderna. Questo basta a giustificare la necessità di un articolo dedicato alla resa musicale della nuova Opera da tre soldi, in scena fino all’11 giugno al Teatro Strehler con la regia-flashback di Damiano Michieletto. In buca Giuseppe Grazioli e l’Orchestra Verdi di Milano. Ma prima dell’attualità torniamo anche noi indietro nel tempo, fino ai mad twenties berlinesi.

Con grande disappunto di Brecht, L’opera da tre soldi fu un successo. Altro che “Epater les bourgeois”! Fu piuttosto la musica caustica, pseudo cabarettistica di Kurt Weill a scandalizzare la critica e a disturbare il pubblico, disorientato di fronte a un lavoro inclassificabile.

E mentre i borghesi si divertivano con il testo di Brecht, nei Song di Weill ribolliva la rivoluzione, anche se troppo nascosta e silenziosa perché ce ne si accorgesse. Come in Jenny dei pirati quando ci viene detto che andrebbero ammazzati proprio «Tutti!», unica parola parlata in partitura, pronunciata prima di un inquietante slittamento cromatico in pianissimo che introduce un sadico «opplà».

Eppure nessuno si sentì davvero provocato per questa messa in scena del capitalismo che genera crimine, e i marxisti ci restarono male. Ma Brecht doveva ancora passare attraverso Il Capitale e solo in seguito avrebbe cercato altri compositori politicamente più impegnati di Weill. Come Hanns Eisler, autore delle musiche di scena di Vita di Galileo, La madre, Schweyk nella seconda guerra mondiale, nonché dell’inno nazionale della DDR, solo per i veri nostalgici.

Va subito chiarito che qui non ci interessa impantanarci nella classificazione de L’opera da tre soldi, se vada o meno considerata un’opera. Prosa con canzoni, Songspiel, testo recitato da cantanti o melodramma canticchiato da commedianti. Evitiamo quindi l’ostacolo di una definizione per schierarci con chi sostiene che la musica riesca sempre a stimolare critiche sociali, dalle Nozze di Figaro a Hozier passando per i Sex Pistols.

È sufficiente l’effetto straniante degli attori che si mettono a cantare nel bel mezzo di una scena, e impediscono qualsiasi immedesimazione. Se a questo si aggiunge il fatto che forse non può nemmeno esistere una musica decontestualizzata, un’indeterminata arte per l’arte, si capisce perché Brecht abbia usato tanta musica nei suoi lavori. Come dice Adorno – ma potrebbe dirlo Brecht: «La musica non si trova in uno spazio vuoto».

Così Weill partecipa da coprotagonista a questo banchetto antigastronomico, quello che rende impossibile svagarsi a teatro. Il suo teatro intende denunciare le sovrastrutture che dispongono il soggetto e tutte le occulte microfisiche del potere, e allo spettatore non rimane altro che una lunga serie di «docce fredde», diceva Brecht.

Dunque si cominci con un’ouverture, con tanto di orchestra e direttore che dà il via al minuetto d’attacco, tutto strumentale, seguito da una vera e propria fuga affidata a ogni tipo di sassofono, in una contaminazione jazz del sacro contrappunto. E si portino all’opera anche le canzonette, non solo per fare a pezzi gli aristocratici frequentatori del teatro, ma anche per disturbare il pubblico piccolo borghese accorso per sentire i successi pop che ama, e ormai irrimediabilmente ingabbiato per ore in un luogo seriosissimo. Un doppio straniamento per scontentarli tutti.

E questo doppio nervosismo è lo stesso effetto ottenuto al Piccolo Teatro da Damiano Michieletto, profanatore del tempio di Strehler con questa specie di Sanremo tutto ori e livetweeting che è la sua Opera da tre soldi. Scontenti i nostalgici, che invocano i nomi di Milva o addirittura di Tino Carraro; scontenti gli amanti del musical, perché anche quando si poteva insistere sulle meccaniche da Broadway Michieletto si è tirato indietro.

Però, come a Sanremo, abbiamo l’ospite d’onore internazionale. Rossy de Palma, musa almodovariana con trucco e parrucco da drag queen, che fa Jenny come in un sequel post orgasmico di Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Così, dopo aver scoperto in sogno le leggi del desiderio, Rossy è finita nel bordello di Mackie. Il pubblico se la ricorda e lo straniamento è perfetto. E in qualche modo riesce persino a cantare: bene Jenny dei pirati, che sembra Diamonds are a girl’s best friend, meno bene l’epica malinconica di Salomonsong.

Graziosa la Polly di Maria Roveran, che vanta una bella voce pulita – quando non prova a imitare i gridolini à la Lotte Lenya. Peppe Servillo è Peachum ed è tecnicamente il migliore di tutti, anche se un po’ afono la sera della prima. Margherita Di Rauso, la Signora Peachum, è forse quella più in parte, specialmente durante la Ballata della schiavitù sessuale. Sbiadito il Jackie Brown di Sergio Leone. Vocalmente disastrosa la prova di Marco Foschi, inadeguato Mackie Messer nonostante il physique du rôle: le note non ci sono, né basse né alte, e quando la voce non lo segue più si mette a strillare. Grottesca in diversi punti la traduzione di Roberto Menin, con le sue «zoccolette» che sbocciano dappertutto ma che sul più bello fa esclamare a Mackie un ridicolo «caspita», senza alcuna giustificazione metrica.

Infine la direzione di Giuseppe Grazioli non riesce a superare il kitsch di tradizione, mentre gli strumentisti dell’Orchestra Verdi non crollano in veri e propri effetti da banda. Nei momenti migliori il direttore enfatizza un sentimentalismo che dovrebbe al contrario scomparire. Così non c’è nemmeno l’accenno di una ricerca nella direzione di un’esecuzione straniata, che rifletta su se stessa e che affronti la «musica d’uso» di Weill nel tentativo, che era poi quello dell’autore, di annullarne tutti i cliché.

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