Nell’ottavo lavoro teatrale di Spiro Scimone, accompagnato dall’ormai indivisibile Francesco Sframeli, si racconta l’amore: anticonvenzionale, sospeso… e geriatrico
Due coppie in là con gli anni (il vecchietto e la vecchietta, il capitano e il pompiere), due tombe “matrimoniali”, due amori al limitar della vita, uno etero, l’altro omosessuale. E mentre i ricordi di un tempo raccontano di passioni esondanti e incendiarie – tanto da allagare letteralmente casa e mandare, altrettanto letteralmente, a fuoco intere camere d’albergo – la quotidianità del presente si compone per lo più di scomode incombenze, come cambiarsi il pannolone o spalmarsi la crema per le irritazioni. Eppure anche nella senescenza è possibile, anzi doveroso, “difendere la propria intimità”, ritrovando, o addirittura cogliendo per la prima volta, quei piaceri e quelle occasioni a cui si è rinunciato in gioventù. Che si tratti di dire parolacce senza provare vergogna o vivere il proprio desiderio senza timore di moralismi omofobi poco importa: anche verso la fine (perché bisogna pur morire tutti) si può finalmente conquistare un poco di libertà.
La prima intuizione che viene in mente davanti ad Amore, ottavo capitolo della produzione teatrale ormai ultraventennale di Spiro Scimone e Francesco Sframeli è un titolo cinematografico che ne è l’esatta traduzione: Amour, di Michael Haneke, vincitore della palma d’oro a Cannes nel 2012. Un film che, seppur in maniera del tutto differente per stile, toni e poetica, tratta un tema piuttosto simile a quello dello spettacolo del duo messinese, ossia l’amore senile in prossimità della morte. A distanza di mezzo, forma, ecc., rappresenta in qualche modo un corrispettivo con cui fare i conti, mettersi in relazione. È proprio la duplicità una delle lenti interpretative migliori per guardare a quest’ultimo lavoro della compagnia Scimone Sframeli e forse al loro intero sodalizio artistico, dove il tema del doppio appare quasi conditio sine qua non del loro operare (si pensi su tutti a Nunzio, il primo spettacolo della compagnia per la regia di Carlo Cecchi, diventato significativamente Due amici nella versione per il grande schermo).
È così che anche in Amore, a fronte delle consuete atmosfere rarefatte di matrice beckettiana tipiche della compagnia, l’elemento dicotomico diventa centrale, per non dire portante dell’intera struttura narrativa della pièce. La trama, che sembra non avere alcuno svolgimento cronologico, procede tematicamente per giustapposizioni duali (eros/thanatos, amore omosessuale/amore eterosessuale, intimità nel passato/intimità del presente), tanto che perfino la drammaturgia sembra improntata a mettere in evidenza il lato ambivalente – a due voci avrebbe scritto Bachtin – della parola dialogica, costringendola in un gioco ripetitivo e ossessivo di continua revisione di senso, spesso ironico, altre volte amaro.
Ed è proprio la tessitura drammaturgica, allusiva e metanarrativa al punto giusto, a scongiurare – almeno in parte –il rischio di far apparire lo spettacolo eccessivamente d’antan. Richiamando in sé molti degli stilemi del Novecento teatrale (dal teatro dell’assurdo a quello pirandelliano) ne celebra, metaforicamente, il funerale attraverso la morte dei protagonisti, mostrando maggior auto-criticità e coraggio di quanto non faccia la messa in scena stessa, misurata ma prevedibile nella sua schematicità.
Il pubblico dell’Elfo Puccini saluta ugualmente con gran calore il debutto milanese della compagnia di Messina, a cui di recente è stata dedicata una personale all’Arena del Sole a Bologna. Segno che, come accade ai loro vecchietti, anche per Scimone e Sframeli la stagione dell’amore viene e non se ne va.
Amore di Spiro Scimone, regia di Francesco Sframeli. Fino all’8 maggio al teatro Elfo Puccini