A margine della mostra di World Press Photo alla Galleria Carla Sozzani, abbiamo chiesto al direttore Lars Boering di spiegarci il nuovo codice etico del concorso di fotogiornalismo più importante del mondo. Quali sono le norme che un fotogiornalista deve rispettare? Quali i limiti di ciò che è legittimo fotografare? O ancora: quali informazioni non possono mancare in una didascalia? E soprattutto: cosa riserva il futuro, nell’epoca dei social media e della fotografia “fai da te”?
L’odissea dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa, la guerra in Siria, i wrestlers del Senegal, le contraddizioni della Corea del Nord: queste e molte altre le storie raccontate attraverso le fotografie che hanno vinto il World press photo 2016, che stanno girando il mondo in 100 città e che sono arrivate, la scorsa domenica, anche a Milano, alla Galleria Sozzani di Corso Como. In mostra fino al 5 giugno, sono state premiate secondo canoni estetici, ma tra le maglie di uno stringente codice etico.
A presentare lo scatto che si è aggiudicato il titolo di foto dell’anno, l’autore stesso, l’australiano Warren Richardson: quando gli ho chiesto che cosa rappresenta per lui questa vittoria, ha risposto che semplicemente spera serva a mettere in luce la condizione dei migranti e le loro sofferenze. Con lui per l’apertura anche Micha Bruinvels, manager dei contest, che ha spiegato che «la cosa più importante per la World Press Photo Foundation è che le fotografie che premiamo e diffondiamo siano considerate affidabili: negli ultimi anni ci sono stati moltissimi scandali, non solo nel fotogiornalismo, ma anche nel giornalismo, e pensiamo sia importante mostrare solo immagini che siano state verificate. Abbiamo elevato gli standard, cui stiamo lavorando da diversi anni».
Eclatante tra gli ultimi casi di squalifica fu quello di Giovanni Troilo, vincitore del primo premio (poi ritirato) della penultima edizione nella categoria Contemporary issues con la raccolta intitolata La Ville Noir – The Dark Heart of Europe, reportage sulla vita dissoluta degli abitanti di Charleroi, in Belgio. Il caso e il vivace dibattito che ne nacque spinse l’attuale direttore del World Press Photo, Lars Boering, a elaborare e a diffondere, il 25 novembre 2015, un nuovo codice etico valido per l’edizione 2016.
Ho intervistato Boering per approfondire i nodi etici che riguardano il premio e, più in generale, il fotogiornalismo contemporaneo.
Nel sito del WPP è scritto: “Ci sforziamo di ispirare, coinvolgere, educare e sostenere sia i fotogiornalisti, sia il loro pubblico globale con nuove intuizioni e nuove prospettive”. Come state affrontando questa sfida? In che modo ricalcate la volontà di essere un think tank?
Stiamo affrontando queste questioni ospitando dibattiti, come negli ultimi Award Days ad Amsterdam. Essere un ‘think tank’ significa promuovere e favorire discussioni, fare domande, e curare le informazioni rilevanti. Lo facciamo sui nostri canali social, e intendiamo lanciare una pubblicazione online in futuro, per occuparci ancora di questi temi.
Quest’anno, rispetto al precedente, sono state squalificate meno immagini in concorso. Il nuovo codice etico sembrerebbe dunque avere avuto un effetto. Tuttavia, la percentuale di squalifiche tra i finalisti si attesta ancora intorno al 16%. Crede che il codice necessiti di un ulteriore arricchimento e in che modo?
Il codice etico, le regole e le linee guida sono chiari. La responsabilità nel ricorrere alla manipolazione è dei fotografi, e tutti loro sono preparati ad avere i loro lavori controllati attraverso i nostri processi di verifica. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è di una maggiore educazione e comprensione di quali sono i limiti del fotogiornalismo.
Pensa che le violazioni dipendano più dalla personale etica dei fotografi o dalle richieste di giornali ed editori?
Un misto: difficile giudicare l’intenzione o la fonte. Possiamo solo giudicare se c’è o meno conformità alle nostre regole e le linee guida.
Le didascalie, secondo il codice, “devono essere precise e rispondere alle domande di base del buon giornalismo”. Crede che sia più facile per i fotografi utilizzare didascalie precise o evitare manipolazioni? Li si può educare?
Il fotogiornalismo deve essere buon giornalismo e le didascalie devono essere precise. Questo richiede un’accurata ricerca, comprensione e conoscenza. Raccontare una storia per immagini richiede molto più di scattare una semplice foto. Dobbiamo assicurare attraverso la nostra formazione e i corsi di perfezionamento che queste pratiche giornalistiche vengano insegnate.
Facciamo un passo indietro e parliamo di etica prima della manipolazione, quella cioè che riguarda il momento dello scatto e quello della pubblicazione. Nella storia sono molte le fotografie che hanno contribuito a denunciare ingiustizie o sensibilizzare l’opinione pubblica. Tralasciando i limiti imposti dalla legge, qual è per lei il limite tra scattare o pubblicare e non farlo?
Prima di scattare, la questione etica riguarda il non ricorrere alla messa in scena e il non influenzare la scena in alcun modo. La questione della pubblicazione riguarda invece il compromesso tra pressioni editoriali e volontà di mostrare una scena impressionante e la possibilità di offrire un resoconto accurato e completo. Non esistono risposte semplici a questa seconda questione.
Secondo il Codice Etico “i partecipanti al concorso World Press Photo devono garantire che la loro fotografia fornisce una rappresentazione accurata e corretta della scena di cui sono stati testimoni, così che il pubblico non venga fuorviato”. Dunque l’etica è una questione di affidabilità, non solo rispetto ai giudici del premio, ma anche ai lettori e ai fruitori dei media?
Sì, assolutamente. Si tratta di garantire al nostro pubblico che può fidarsi della credibilità di queste immagini, sia in quanto immagini di news sia in quanto immagini documentaristiche.
Tuttavia, come riportato nel Rapporto 2015 sullo Stato del fotogiornalismo, “La fotografia è diventata qualcosa di molto facile per la maggior parte delle persone. Molti non vedono il lavoro che sta dietro ogni immagine e ogni storia raccontata dai fotografi professionisti”. Nello stesso rapporto si scrive che uno dei maggiori problemi per i fotografi è diventato proteggere i propri loro diritti e che “al pubblico deve essere insegnato che anche il download di una fotografia trovata su Internet è un furto”, perché mette in crisi il lavoro dei professionisti. Crede si potrà superare il problema? Come?
Sì, può essere superato, ma dobbiamo renderci conto che l’economia dei media è cambiata: la condivisione è la norma e i modelli di business basati sulla concessione di licenze o di vendita delle immagini sono al collasso. Sia i fotografi, sia il pubblico devono dotarsi di una diversa mentalità e di un diverso approccio, in modo che possano entrambi ridare valore alla fotografia.
Lei individua nei social media la radici di molti problemi: la gente, sempre più spesso, fotografa ‘per’ i social media, appiattendo sempre di più il proprio stile, mentre i fotografi sono sempre più intimiditi da chi gode di grande popolarità in quei contesti. Crede che i social media potranno davvero mettere il fotogiornalismo in pericolo? Più o meno dell’incerto futuro della carta stampata?
Tutti i media sono social media e i social media sono stati, nel complesso, estremamente vantaggiosi per il fotogiornalismo, perché gli hanno portato un pubblico più vasto a livello mondiale. Il fotogiornalismo non è in pericolo, è più popolare che mai. Ciò che è in pericolo – ed è per sempre cambiato – è il modello di business utilizzato per finanziarlo.
Lei sostiene che la fotografia sia a un bivio. “Al momento non sono presenti esempi radicali di un nuovo tipo di fotografia. Credo si risolverà nel prossimo decennio o giù di lì” e “sono positivo circa il valore e il futuro della fotografia. La mia preoccupazione è per il valore e il futuro dei fotografi”. Che consiglio darebbe ai fotogiornalisti per sopravvivere?
Raccontate grandi storie, basate su una profonda conoscenza del tema e l’apprezzamento del vostro pubblico. I fotogiornalisti hanno bisogno di un’educazione permanente, e di approcci creativi sia alle storie, sia ai modelli di sostenibilità. Sembra facile, ma, com’è sempre stato, si tratta di duro lavoro e tantissimo impegno.
World Press Photo 2016, Galleria Carla Sozzani, fino al 5 giugno 2016.
Immagine di copertina: Dario Mitidieri, Italia, I ritratti della famiglia perduta, 2015. Ritratti di rifugiati siriani in un campo a Bekaa Valley in Libano, il 15 dicembre 2015. La sedia vuota nella fotografia rappresenta un membro della famiglia che è morto in guerra o le cui tracce sono scomparse. Courtesy Galleria Carla Sozzani, Milano.