Valeria Bruni Tedeschi e Michaela Ramazzotti convincono in “La pazza gioia”, film commovente, delicato e non ruffiano, che ha conquistato il Festival. Il regista livornese affronta la malattia mentale e le sue dinamiche di sofferenza con sincera partecipazione, mettendo in scena la fuga delle sue protagoniste, che più diverse non potrebbero essere, ma s’incontrano. Sulla Croisette buona accoglienza anche per “Pericle il nero” di Stefano Mordini e il delicato “Fiore” di Claudio Giovannesi
In generale possiamo dire che i registi si dividono in categorie. Ci sono quelli “vavavuma”, tutto un effetto speciale che ti esplode in faccia. Quelli intimisti, dagli una stanza e molta ombra e ci vanno avanti per ore. Quelli impegnati, che mai un sorriso. E così via, avanti per ore. Paolo Virzì è quello bravo con gli attori. Super bravo. Poi scrive anche bene, riuscendo nell’arte di farci ridere senza sembrare scemi, che non è poco nel cinema italiano. In altri paesi ci riescono naturalmente, noi di recente mica tanto. Però Virzì è soprattutto un regista di attori, che con lui si trasformano, sono persone reali, umane, per davvero. Dovrebbe succedere con tutti, ma non sempre è così. Cannes ha amato il suo film anche per questo, insieme a Fiore e Pericle il nero.
La pazza gioia è la storia di Donatella, una scheletrica Micaela Ramazzotti, che arriva in una comunità dopo esser stata rimbalzata per anni da una struttura psichiatrica all’altra, in seguito a un tentato suicidio-omicidio. Qui incontra Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi), che ha dilapidato il patrimonio familiare per un bipolarismo tanto irresponsabile quanto irresistibile. Se Donatella è fragile, smarrita, chiusa in sé stessa e proletaria, Beatrice è loquace, irruente, dispotica, altoborghese e sicura di sé. Come spesso succede, gli opposti si attraggono e le due donne finiscono per legare in quella che più che un’amicizia finisce per diventare quasi una relazione terapeutica. Terapeutica perché l’altro protagonista del film è il disagio mentale. E i luoghi in cui questo disagio si consuma. Dalla disordinata e protettiva Villa dove vivono le protagoniste in recupero, all’OPG dove viene rinchiusa Donatella. Uno è luogo di accoglienza, l’altro di coercizione. Uno viene fotografato sempre con una luce dorata, mentre a contrasto l’altro è freddo e metallico.
Virzì racconta che nel periodo di preparazione ha frequentato molte di queste strutture, e in parte il film è un tentativo di metterci davanti alla realtà dolorosa che ha visto. Non a caso il film è ambientato nel 2014, e nel finale compare l’informazione che nel 2015 sono stati chiusi gli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Il regista, che ha scritto e sceneggiato il soggetto insieme a Francesca Archibugi, ha voluto parlare della malattia mentale e della condizione estraniante di chi soffre di questi disturbi, vivendo in strutture coercitive. Per farlo ha scelto la fuga, il viaggio, l’avventura che porta lontano da questi luoghi chiusi. Ha scelto di mescolare il disagio con la vita. Un genere che gli riesce molto bene.
Se la forza della cinematografia di Virzì è nella sua capacità di avvicinarci all’umanità, grazie a La pazza gioia e al suo sguardo sulla malattia mentale ha compiuto un ulteriore passo in questo senso. Amplificata dallo sguardo sulla sofferenza, la sua capacità di mostrare compassione ed empatia nei confronti dei personaggi risulta ancora maggiore. Perché le due protagoniste un po’ matte lo sono davvero, e hanno causato dolori e problemi a sé stesse e agli altri. Ma per Virzì è importante mostrare che in ognuno resiste sempre un nocciolo di gioia, che anche se pazza vuol solo venir fuori ed essere accudita, confortata, sostenuta e accettata. Donatella e Beatrice non sono meglio né peggio di tanti altri/e, ma muovono in noi una tenerezza commovente, perché ci permette di ritrovarci solidali con chi di solito ci fa paura. È una solidarietà che non teme di esser tradita da facili buonismi: il film non ammicca, non pretende con mezzucci di bassa lega di spremerci qualche lacrima. Io qualche lacrima l’ho versata e l’ho fatto senza vergogna, perché non c’erano colpi bassi. E di questo sono grata al film.
Così come sono grata a Valeria Bruni Tedeschi di aver interpretato mirabilmente il suo ruolo. Anche grazie a un copione pieno di battute felici, Beatrice, che nel film è fra le due donne quella minimamente più consapevole, acquista nelle mani dell’attrice una miriade di sfumature. C’è la gran cacacazzi che non fa che blaterare su tutto e la donna smarrita, che però ha la capacità di comprendere la sofferenza degli altri e di farsene carico fino in fondo. Premio “Cameo d’oro” a Marisa Borini, madre della Bruni Tedeschi nella vita vera anche nel film, che commenta, caustica, le gesta di Beatrice.
Al personaggio di Donatella va invece il premio “momento più commovente”, anzi due. Quando il padre viene a trovarla in ospedale e quando fa un incontro importante sulla spiaggia (ok, non dico niente). Nuda, anche se in mutande e reggiseno, di fronte alla possibilità dell’amore, Micaela Ramazzotti rivela una timidezza gentile e interrogativa che colpisce profondamente.
Il film ha anche dei punti deboli. Una parte centrale un po’ squinternata, meno “sincera” (gli incontri in discoteca, l’improbabile amante di Donatella, ancora qualcosina qui e là), ma La pazza gioia è un film divertente e non superficiale, ben recitato e ben pensato.
Ultima cosa. Per quanto mi faccia felice veder due donne interpretare così bene le storie delle loro protagoniste, penso che se ci fossero stati due uomini non sarebbe stato tanto diverso. La malattia mentale non conosce genere, classe e sostanza. La malattia mentale, quando arriva, non guarda in faccia a nessuno.
convince SCAMARCIO, sado-malavitoso
A Festival 2016 nella sezione Un Certain Regard, un lavoro italiano capace d’incuriosire fin dal titolo, sbarcato sulla Croisette forte del suo protagonista, Riccardo Scamarcio, e del soggetto tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Ferrandino. Pericle il nero, così s’intitola il film di Stefano Mordini, è il racconto cupissimo dello scagnozzo Pericle Scalzone, da sempre alle dipendenze di un paffuto boss della mafia italiana trapiantata in Belgio, che è dotato di un particolare strumento di violenza. Il protagonista, infatti, intimidisce le proprie vittime, ree di aver mancato di rispetto al capo, sodomizzandole. Un metodo scioccante, che fin da subito trasporta il pubblico in un mondo nerissimo e capace di rovesciarsi molto velocemente.
Dotato di uno sguardo limpido e preciso, Pericle il nero è capace di far sprofondare chi guarda nella stessa apparente apatia criminale che caratterizza l’inespressivo protagonista, una sorta di automa della malavita, privo di sentimenti, in grado di eccitarsi a comando. Scamarcio è bravo a interpretare un genere di umanità che vive ai margini della società, chirurgicamente isolato ed emotivamente distante, Mordini è altrettanto efficace nel restituire un mondo in cui nessuno vorrebbe mai vivere, dove la vendetta e la fredda mano della mafia potrebbero colpire in ogni momento.
Peccato però che una prima parte ben condotta sia seguita da una seconda in cui il tentativo di Pericle, che vuol fuggire e ricostruirsi una vita, ammazza definitivamente il pathos creato, incagliandosi in una serie di situazioni del tutto fuori contesto. Seppure spezzata in due parti, la pellicola può dirsi però riuscita, soprattutto grazie a uno sguardo sicuramente non innovativo, ma chiaro e deciso. La crudezza di alcune sequenze ben si adatta al racconto, soffocante nella totale assenza di speranza. Peccato per lo scivolone sentimentale, tirato troppo per le lunghe e colpevole di rallentare il ritmo della narrazione. I titoli di coda sulle note degli Alabama Shakes hanno comunque la forza di ridestare uno spettatore quasi sopito.