Da Arianna e Teseao a Otello e Desdemona, dall’Orlando di Ariosto ai racconti popolari, un viaggio fiabesco e spietato tra le donne vittime d’odio
La storia del Teatro del Carretto, compagnia nata nel 1983 dal sodalizio tra la regista Maria Grazia Cipriani e lo scenografo Graziano Gregori, ha sempre riservato grande attenzione al mito, orientando il proprio impegno a una ricerca precisa, strutturata e formulata in modo da intrecciare la vocazione per il meraviglioso e per il fiabesco a una risoluta consapevolezza dello spazio scenico, delle sue infinite possibilità di rappresentazione e del suo inevitabile rapporto con la contemporaneità. Un repertorio variegato e trasversale, quello della compagnia, che si è confrontata negli anni con Dumas, Omero, Kafka, Euripide e Collodi, e che è riuscita a emergere con successo, tanto da culminare nell’attribuzione del premio UBU 1991 per la ricerca drammaturgica e visiva.
Le mille e una notte non fa eccezione alla visione della compagnia; nelle mille e più notti che la principessa Shahrazad dedica alle storie da raccontare al marito sultano, temporeggiando per avere salva la vita, si affastellano più piani di percezione e d’interpretazione. La figlia del visir, in ripetuto odore di morte per via di uno sposo che ha in odio il genere femminile, si lascia andare a un ordito di racconti emblematici della sua causa: dalla storia di Arianna, Teseo e il Minotauro, a Otello e Desdemona, dall’Orlando di Ariosto alle fiabe popolari, i riferimenti estetici scelti da Cipriani incontrano agevolmente – e si incastrano con incontestabile aderenza – ai principi di un testo che ha la precisa volontà di partire dal mito per giungere a un discorso ossigenato, spietato e sanguinolento sull’intolleranza atavica, e mai sospesa, nei riguardi della donna.
Sulle note di Gracias a la vida (1966) della cilena Violeta Parra, inno all’umanità di raro ardore (gracias a la vida/que me ha dado tanto), e su quelle dell’Ave Maria di Schubert, implode il canto di dolore di Shahrazad, che trova nel vigoroso mestiere di Elsa Bossi (attrice-feticcio della compagnia) un’interprete perfetta e ragionata. Ai due interpreti maschili, Giacomo Vezzani e Nicolò Belliti, l’enorme merito di teorizzare visivamente vizi e virtù del maschio-bestia: i due rappresentano straordinaria e sfaccettata cronaca anatomica di un germe violento e torturatore, foriero di sventure e fraintendimenti, di rabbie trattenute e laceranti.
Lo spazio scenico, assecondato dall’estrema intelligenza di Graziano Gregori e dalle intenzioni di Cipriani, si evolve gradualmente, e su più livelli, in un bastimento di morte e, parimenti, commedia canzonatoria. Seguendo percorsi deformati e labirintici, la mise en abyme cui si assiste non è compilazione combinatoria fine a se stessa, ma procedimento sistematico che ha culmine in una giaculatoria, nelle forme di una base d’asta, di spietata evocazione storica: i vestiti insanguinati delle donne vessate e torturate dalla nostra contemporaneità rincorrono riferimenti raffinati ed egualmente midcult, dal Chiaro di Luna di Beethoven a Claudio Cecchetto, da Otello a Jannacci. Le mille e una notte uncina gli animi e li piega a un orgasmo doloroso e inespresso, supera il gender e lo induce a un soffocamento sistematico, graduale, inevitabile. Fa male, ma forse è anche giusto così.