Vacanza Indù di J. R. Ackerley è un ironico e sgangherato diario di un viaggio in India negli anni Trenta
È nel registro ironico di Vacanza Indù (ed. Adelphi), sgangherato diario di un viaggio in India che l’autore intraprese negli anni Trenta, che J.R. Ackerley dà il suo meglio. Il libro coniuga i filoni più caratteristici della letteratura inglese: lo humor garbato e la raffinatezza alla P. G. Wodehouse e alla Evelyn Waugh con le storie coloniali alla Rudyard Kipling.
Pettegolo, sofisticato, tagliente, non si riesce mai a capire se Ackerley stia prendendo in giro quei pomposi e dissennati indiani o i suoi ingessati e ottusi compatrioti colonialisti, o ancora se registri tutto in assoluta buona fede e obiettività. È senz’altro quest’inafferrabile combinazione che l’ha fatto amare da grandi scrittori come E.M. Forster, W.H. Auden, S. Rushdie e Douglas Adams, che si sono ispirati alla sua prosa e ai suoi temi – spesso superando il maestro.
La parte più spumeggiate di Vacanze Indù è l’inizio: Sua Altezza, il Maharaja Sahib di Chhokrapur, invisibile staterello dell’India che oggi sarà vano cercare – ‘posto che sia mai esistito’-, cerca un segretario privato, un consigliere, un damo-di-compagnia, insomma uno con cui parlare di occidente, arte, cibo, cultura e religione. Sono temi così complessi… sua Altezza non sa che posizione prendere e vorrebbe confrontarsi con un vero gentleman inglese.
Voleva un amico. Voleva comprensione, simpatia, e un po’ di filosofico conforto; e andò a cercarli in Inghilterra. Ciò parrà strano a molti, persuasi che sempre la saggezza abiti in Oriente; ma lui era convinto che dimorasse in Occidente – dove, dovrei forse aggiungere – non era mai stato.
L’unico requisito richiesto dal Maharaja per il suo consigliere, oltre alla nazionalità britannica, è una certa somiglianza al vichingo Olaf, personaggio leggendario della Collana del Vagabondo di Rider Haggar. E il giovane Ackerley è grande, grosso e fulvo proprio come Olaf. Viene assunto e parte alla volta del continente indiano.
Di quel paese, quando salpai alla sua volta, sapevo all’incirca quanto ricordavo dagli anni della scuola: che c’era stato un ammutinamento, per esempio, e che a vederlo sulla carta somigliava un po’ a un Cervino capovolto; rosa, perché lo governavamo noi. Le mie conoscenze, insomma, non erano esaurienti; non lo sono esaurienti nemmeno adesso…Perciò questo diario, nato giorno dopo giorno, da un’ignoranza pressoché totale, e la cui esattezza fattuale, dato che dipendevo unicamente dalla mia memoria, non sono in grado di garantire.
Appena arrivato nella residenza di servizio, mentre si sta rinfrescando e pensa a quanto sia inadeguato al sontuoso cerimoniale che lo aspetta a palazzo, arriva un gigantesco servitore nero a bisbigliargli che sua Altezza è proprio lì, in camera sua.
Vuol favorire? Un po’ di tè? È comoda la stanza? Ha tutto quello che le serve? Non si faccia scrupolo di chiedere qualsiasi cosa…- dice il Maharaja in un inglese stentato e guardando altrove. Ebbe ora inizio una mirabolante inchiesta sulla mia storia, che saltò senza posa di palo in frasca.
Impossibile riprodurre il delirio surreale delle questioni, dalle più banali a quelle più profonde, esistenziali, poste a raffica e tutte sullo stesso piano: “Quanti eravamo in famiglia?… Consideravo la tragedia di Gesù Cristo la più grande tragedia mai avvenuta?…avevo letto Darwin, Huxley, e Marie Corelli?… -Insomma, c’è un Dio o non c’è un Dio?- sbottò Sua Altezza spazientito. – Questo è il problema. È questo che voglio sapere. Spencer dice che c’è, Lewes dice di no”.
Deluso dal fatto che Ackerley ignori gli autori da lui nominati, il Maharaja gli promette alcuni volumi da studiare, per poterne parlare insieme e approfondire questioni importanti. Siamo poi travolti dalle descrizioni di sete, di broccati, di marmi, di suoni, di danze che fanno parte dell’immaginario occidentale modellato dalle Mille e una notte, con una particolare debolezza per le grazie dei servitorelli bruni dalle lunghe ciglia che Ackerley cerca di farsi assegnare come insegnanti di hindi. Con beffardo dispetto, il Maharaja gli manderà un interprete petulante, antipatico e piagnone.
Lo sguardo del giovane inglese si posa ironico e imparziale su indiani e occidentali, ammette di farsi tentare dalle facili vie del ridicolo: la caricatura non risparmia nessuno. Non gli interessa andare oltre e lo dice chiaramente. A questo proposito è emblematica e, a suo modo, coraggiosa la descrizione che Ackerley fa della sua visita – l’unico impegno nel sociale di tutto il viaggio – alle carceri. È un lungo e basso edificio scalcinato ai margini della città, dove stanno rinchiusi una cinquantina di detenuti, tutti coi ferri ai piedi, accosciati al sole nei vari cortili, a filare canapa o a intrecciare tessuti.
Andai attorno prestando, per quanto possibile, eguale attenzione a ognuno, caso mai la mia visita avesse per loro importanza pari a quella del principe di Galles nei giri d’ispezione in Inghilterra, e rendesse particolarmente significativa questa giornata altrimenti indistinguibile da centinaia di altre. E tutti parvero contenti di dimostrare la loro abilità nel lavoro che stavano facendo. Ma erano tutti creature misere e sparute, e per nessuno di essi provai alcun interesse personale.
Con la stessa disarmante sincerità, ingenuità e ignoranza con cui è arrivato, dopo cinque mesi di permanenza alla corte di Chhokrapur, Ackerley fa ritorno a Londra.
Immagine di copertina: India di sandeepachetan.com travel photography