90.000 presenze, 400 concerti non stop per 50 ore ininterrotte di musica il bilancio lusinghiero della manifestazione cittadina giunta alla sua quinta edizione. Ecco le impressioni di Cultweek
Piano City appartiene a quella tipologia di eventi che, quando ci si trova a doverli raccontare durante una cena, non sai mai che parole usare. Provi con la parola “festival” ma capisci che non va, troppo banale. Cerchi di essere più incisivo: «ecco, si, è una maratona pianistica!». Funziona, ma non rende l’idea. E allora ti butti: invasione musicale, musica all’aperto, passeggiata tra concerti, pianoforti ovunque, sui tram, nelle fermate della metro, su una barca. Nemmeno così e ti arrendi con la solita frase: «se non ci sei stato non puoi capire».
Perché per capire cos’è veramente Piano City bisogna andarci. Bisogna viverlo nelle strade, camminando senza meta alla ricerca di un pianoforte, della sua inconfondibile voce nascosta tra i giardini e gli edifici di City Life o tra i suggestivi chiostri della Ca’ Granda, fermarsi da soli o in compagnia e ascoltare musica, qualunque essa sia, un preludio di Bach o anche qualche stravagante riadattamento dei più grandi successi di David Bowie.
E così, con questo spirito, domenica mattina è iniziata la mia giornata pianistica alla scoperta della quinta edizione di Piano City: il tour è iniziato alle Gallerie d’Italia, in Piazza della Scala, dove il giovane pianista Scipione Sangiovanni ha fatto dialogare le quattro stagioni veneziane di Antonio Vivaldi e quelle rioplatensi di Astor Piazzolla.
Promettente “leva” del mondo musicale italiano già noto nelle sale di Barcellona, Salisburgo e New York fra le altre, Sangiovanni ha proposto un progetto unico nel suo genere. Avvicinando per la prima volta su un pianoforte due cicli musicali così distanti nel tempo e nello spazio ma al contempo simili e simbolicamente vicini, è riuscito a scomporli dalla loro veste originaria e ricomporli in una scrittura a due mani per tastiera che ne ha ribadito e dimostrato la modernità senza però scalfirne gli elementi più caratteristici: da un lato l’energia, la delicatezza e il raffinato contrasto fra solo e tutti dei concerti vivaldiani, ancora figli delle rigide norme barocche, dall’altro le sinuosità melodiche e ritmiche della musica di Piazzolla, più protesa invece verso gli ibridismi novecenteschi.
Un dialogo non diverso ha avvolto il chiostro principale della Ca’ Granda, cuore dell’Università Statale di Milano, dove Emilio Spangaro, giovane pianista italiano e recente vincitore nella sezione pianistica al Concorso Internazionale di Interpretazione Musicale 2015 di Genova Nervi, ha offerto un percorso musicale più tradizionale. Ma solo apparentemente: partendo dal romanticismo tedesco delle Davidsbündlertänze di Schumann, passando per l’astratta Russia di Skriabijn, Spangaro ci ha riportato tra le stesse vie di Buenos Aires scenario perfetto dei tangos di Piazzolla. Un ritorno in America Latina dunque, per scoprire un’altra faccia, meno conosciuta ma altrettanto suggestiva, della musica argentina: quella di Alberto Ginastera (1916-1983), nativo di Buenos Aires, nel cui linguaggio si uniscono sapientemente elementi folkloristici e popolari con la tradizione avanguardistica del novecento europeo nel solco già tracciato qualche decennio prima da Leoš Janáček e Béla Bártok.
Un viaggio insomma che, attraverso le mani di Scipione Sangiovanni ed Emilio Spangaro, ci ha condotto, da un epoca all’altra, tra l’Argentina e l’Europa, i due lati dell’Oceano Atlantico, affrontando forme e linguaggi diversi per arrivare finalmente alle inquietudini della contemporaneità globalizzata.
E proprio in questa contemporaneità si è concluso il percorso domenicale tra i suoni di Piano City. Lontani dalle suggestioni ottocentesche di Palazzo Antona Traversi e dal rinascimento lombardo della Ca’ Granda del Filarete, lo scenario prescelto per quest’ultima tappa musicale è stato il Teatro Continuo ideato da Alberto Burri nel 1973, tra gli alberi di Parco Sempione, in occasione della XV triennale milanese. In questo contesto, privilegiato e quasi surreale, organizzato per raccogliere fondi per donare un pianoforte alla città dell’Aquila distrutta dal terremoto del 2009, i tre pianisti jazz Mirko Signorile, Claudio Filippini e Giovanni Guidi sono riusciti a rompere la quotidianità urbana improvvisando a colpi di dissonanze, poliritmie sovrapposte, gruppi ternari e binari, blu notes e swing, scale esatoniche e pentatoniche, in una vera e propria competizione jazzistica a tre. Anzi a quattro, se aggiungiamo l’imprevisto (e, va detto, alquanto fastidioso) sottofondo lontano di un gruppo di percussionisti improvvisati.
Con disarmante semplicità, Piano City ha bloccato per un istante il ritmo della vita milanese: portando la musica là dove prima dominava la solita frenesia cittadina, in un suggestivo viaggio nello spazio e nel tempo che ha trasformato Milano in un teatro contemporaneo. Un teatro capace di accogliere non solo le vertiginose folate dell’estate vivaldiana e le intime melodie di Schumann ma anche le astrazioni di Skriabijn e del jazz improvvisato.
Il tutto in una realtà viva e comunitaria dove musica, pubblico di ogni sesso e di ogni età si uniscono attorno ai pianoforti e ai loro performer in un’interazione unica, non sempre silenziosa, ma di certo genuina, vero cuore e motore di un evento ormai irrinunciabile della vita culturale milanese. Un evento, a essere sinceri, davvero troppo difficile da raccontare in una cena fra amici.