Nel giorno della finale di Champions League a Milano, si può trovare rifugio nelle sale del Museo Poldi Pezzoli. Lì, Giulio Paolini, forse il più grande degli artisti concettuali italiani, ha allestito Expositio: un serrato dialogo tra antico e contemporaneo, una riflessione sul ruolo dell’osservatore rispetto all’opera. E a guidarci nella visita, sono le parole di Paolini stesso.
Quando a Milano fa caldo, io mi sento soffocare; e come se non bastasse mi ritrovo in un centro cittadino invaso da masnade di tifosi: che follia! Sudo, mi levo la giacca ma anche in maniche di camicia la situazione non cambia e comincio a sentire i piedi dentro i mocassini ribollire. In piazza della Scala bevo alla fontanella e mi bagno i polsi, d’un tratto mi chiedo se con tutto questo caldo i colchoneros riusciranno a reggere 90 minuti di garra… Riprendo la marcia e finalmente arrivo al Poldi Pezzoli.
Siamo qui, la porta del Museo è chiusa e non ci resta che attendere. Ci troviamo davanti a un museo immaginario, a chiederci quali e quante sale si nascondano al di là di quella porta. Ci troviamo cioè a considerare o immaginare, appunto, le diverse infinite visioni che ci sono al momento precluse.
Si entra e nel Salone dell’Affresco mi trovo davanti a Expositio: quattro calchi in gesso della Venere di Fidia, posti al di sopra di alti basamenti, contornati da lastre di plexiglass specchianti. L’insieme è concepito per essere circumnavigato, non esiste un punto di vista privilegiato e gli specchi creano un gioco di relazioni che coinvolgono non solo l’opera e il suo rigenerarsi ma anche l’immagine riflessa dell’osservatore e quella delle opere della storica collezione, come il grande tappeto safavide che pare accarezzare i fianchi carnosi di Afrodite.
L’installazione mostra i tratti più tipici del lavoro di Paolini: la riflessione sul significato dell’arte; il vero e la copia; il gusto per il frammento; la citazione dell’antico; l’ambiguità della visione e l’inganno del linguaggio. Come sempre Paolini non ha velleità analitiche e non è interessato al dato scientifico quanto alla genesi e alla presentazione dell’enigma e sembra suggerirci che la verità non ha bisogno di essere vivisezionata ma solo ipotizzata.
Un’opera non concederà mai a nessuno, in nessun caso, il pieno possesso delle sue generalità e il suo autore sarà soltanto il primo testimone destinato a custodire un insondabile segreto. Riguarda invece il come e il perché, cioè le ragioni (sempre che ve ne siano) che determinano l’apertura del sipario della rappresentazione.
Nella Sala dei Tessuti mi trovo ancora a riflettere sull’antico perché l’opera qui presentata si chiama Italia Antiqua e il soggetto di questa riflessione è il Circo Flaminio, imperiale monumento al gioco di cui oggi non resta nulla e dentro il quale Paolini sfoga tutto il suo citazionismo. Quindici collages nei quali trovano spazio oggetti e opere della collezione del Poldi Pezzoli come l’Elmo Borromeo e il Cassone con i decori di Bartolomeo Montagna ma anche veri e propri tributi come Ruggero libera Angelica di Jean Auguste Ingres, L’enigma di una giornata di Giorgio de Chirico, il Sisifo di Tiziano. A questi collages se ne aggiungono altri quattro dedicati ad opere emblematiche del museo.
Cosa resta di un tanto esteso panorama, di una così vasta “summa iconographica”? Tutto, che appaia o meno, è ancora visibile sempre che lo si voglia vedere. Qui Giunone, Narciso, Endimione, il Niobide ferito, Chronos, l’Ermaphrodito, i Dioscuri, Venere, Arianna, Ebe, Sisifo, Hermes… rivivono e ci consentono di assistere alla sommessa ma grandiosa catastrofe che pare consumarsi sotto i nostri occhi.
Tocca salire al piano superiore per vedere l’ultima opera esposta, quindi faccio gli scalini e mi soffermo un po’ su Magnasco e su quelle sue pennellate nervose e taglienti, poi al piano mi accoglie un guardiano che col piede tiene un ritmo sincopato su un charleston immaginario: è quasi ora di andare e ha fretta. Qui in passato ho trascorso tanto tempo a ripassare per gli esami di storia dell’arte moderna ma oggi la scena del Salone Dorato, dei Mantegna, dei Piero e dei Botticelli, è rubata da tre ragazzotti di gesso. Si chiamano Tre per tre (ognuno è l’altro o nessuno). Mi sembrano tutti e tre uguali, “tipico di Paolini” mi dico ed invece no, perché il primo tiene una matita e dei fogli in mano ed è inequivocabilmente l’artista, mentre il ragazzo che gli sta di fronte, a lui uguale, è il modello mentre il terzo, uguale al secondo, chi è? L’osservatore forse? Allora cosa ci faccio io lì a disturbare quella “partita”?
I tre personaggi gravitano intorno allo stesso ‘tavolo da gioco’. La partita non potrà mai avviarsi, né tantomeno concludersi, perché tutti sono ospiti, e non titolari, dello stesso luogo: il luogo dell’opera, ovvero lo spazio dove l’opera ha luogo. Ospite dell’opera è l’autore, che ospita a sua volta l’osservatore. Disegnare, osservare. Osservare, disegnare… Invertendo l’ordine dei fattori l’immagine non cambia, il dilemma rimane, il Liber Veritatis continua all’infinito.
Il guardiano jazzista inizia a chiudere le persiane delle finestre e io rimango lì per un attimo da solo nella penombra, con Masaccio, Piero e Botticelli, e quei tre ragazzotti e mi sento osservato e giudicato. Cosa ci ho capito di questa mostra? E quanto tempo è passato da quando sono qui? Nessuna risposta: è l’ora di andare e non c’è tempo per trovare le soluzioni.
Dunque per ben di più, forse per sempre, vorremmo sostare ad ammirare qualcosa capace di sottrarci allo scorrere del tempo reale affidandoci a un tempo così virtuale da sembrare fermo e immutabile. Un tempo che ceda il passo alle epoche, addirittura all’eternità, la quale, anche se non sembra, ci è pur sempre contemporanea.
Giulio Paolini, Expositio, Poldi Pezzoli, fino al 22 agosto.
I testi in corsivo sono tratti dai seguenti volumi:
Giulio Paolini, Idem, Torino, Giulio Einaudi editore, 1975
Giulio Paolini, Da oggi a ieri, catalogo della mostra (Torino, GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea), Torino, Hopefulmonster, 1999