L’esordiente protagonista, fragile e sfacciata, bravissima, scovata dal regista Claudio Giovannesi, illumina un film che ha trovato molti applausi al Festival di Cannes. Dove questi due giovani esseri, già segnati dal carcere, mostrano che la speranza di farsi una vita, al cinema commuove ancora
Daphne, protagonista di Fiore di Claudio Giovannesi, ha diciassette anni, gli occhi grandi, le mani piccole da bambina, e tanta rabbia in corpo, abbastanza da far esplodere le sbarre della prigione in cui è rinchiusa. L’hanno arrestata per aver tentato di rubare un cellulare puntando un coltello alla gola del suo legittimo proprietario, l’hanno condannata ma le porte del carcere minorile potrebbero aprirsi anche subito, se nel mondo ci fosse qualcuno in grado di occuparsi di lei, darle una casa, un sostegno. Però suo padre (Valerio Mastandrea, anche produttore del film) è appena uscito di galera, una casa non ce l’ha, nemmeno un lavoro, e si sta faticosamente rimettendo in piedi grazie a una nuova fidanzata, una straniera dai modi spicci che gli ha offerto un letto e un po’ di affetto, ma non ha proprio voglia di farsi carico di quella ragazzina ringhiosa e fragile, che pretende la luna ma non ha mai imparato a guardare le stelle (anche perché nessuno ha mai avuto il tempo e la pazienza di insegnarle alcunché).
In prigione Daphne incontra Josh, un altro cucciolo rabbioso dagli occhi disperati, che sbatte i pugni contro i muri e non sa cosa fare di sé, oltre a urlare al cielo la propria rabbia impotente e prendersi a botte con i compagni di cella. Sguardo dopo sguardo, fra un biglietto infilato nei vassoi del pranzo e due parole clandestine scambiate di notte da una finestra all’altra, i due s’innamorano. Forse. O forse semplicemente intravedono l’uno nell’altro un segno di futuro, un’apertura, una possibilità. L’occasione di uscire dall’angolo grigio dove la vita li ha precocemente sospinti, per scoprire una nuova forza, un inedito slancio grazie al sostegno reciproco.
Qualcuno lo chiama amore, e ritiene che sia in grado anche di far sparire le pareti di una prigione. Qualcun altro risponde che l’amore non basta. Che ci sono regole da rispettare e pene da scontare. E che la società ha il diritto di difendersi.
Claudio Giovannesi, regista romano nemmeno quarantenne, che già si era fatto notare nel 2012 con Alì dagli occhi azzurri, non prende direttamente posizione ma si mette in qualche modo a disposizione di questa storia e dei suoi protagonisti, con uno stile asciutto e insieme poetico, capace di trasmettere emozioni e di raccontare con onestà, senza un filo di retorica, l’emarginazione di tanti giovani che abitano le nostre periferie. Ma anche, e soprattutto, il loro desiderio di riscatto, troppo spesso destinato a infrangersi contro un muro di indifferenza che li rende semplicemente invisibili.
Fiore è un film che sorprende per intensità, per la capacità di coinvolgere e commuovere lo spettatore senza andare in cerca dello shock a ogni costo, per la scelta di mostrare la quotidianità di un carcere minorile (quello di Casal del Marmo, a Roma) che non si presenta certo come un girone dell’inferno, ma è pur sempre un luogo di detenzione: dove per qualche istante puoi avere l’illusione di essere quasi libero, ma poi ti ricordano che l’ombretto sugli occhi te lo puoi mettere ma il rossetto no (chissà perché), e anche se ti permettono di vedere i fuochi d’artificio la notte di Capodanno, poi la porta della tua cella la chiudono comunque a chiave di nuovo.
Un film che deve gran parte della sua riuscita alla scelta della protagonista, Daphne Scoccia: bella e intensa, semplicemente straordinaria nel suo misto di timidezza e sfacciataggine, fragilità e forza. Una debuttante assoluta scovata dal regista in un’osteria romana dove faceva la cameriera. A Cannes, dove il film è stato accolto con favore, Daphne ha dichiarato che recitare le piace più di quanto avrebbe mai immaginato, e quindi vorrebbe continuare a farlo. Ci auguriamo che ci riesca.
Fiore di Claudio Giovannesi, con Daphne Scoccia, Josciua Algeri, Valerio Mastandrea