A pochi giorni dalla storica visita di Obama a Hiroshima, una mostra a Roma celebra il grande Domon Ken, maestro della fotografia giapponese, e la sua capacità di raccontare la realtà con uno sguardo diretto e franco. Anche la realtà più drammatica.
Bende, cicatrici e assenze. Dodici anni dopo quel 6 agosto 1945, il giorno in cui su Hiroshima fu sganciata la prima bomba atomica della storia, il fotografo giapponese Domon Ken si reca in quei luoghi e registra in bianco e nero quello che è rimasto. Racconta la vita che scorre di nuovo tra gli hibakusha, i sopravvissuti, chi ha perso i propri familiari tra quelle 140mila vittime e chi porta i segni indelebili sulla propria pelle, sotto forma di bruciature e cicatrici più spesse delle cuciture di un pallone da rugby, frutto delle tantissime operazioni di chirurgia plastica e dei trapianti subiti dalle vittime.
Sono solo alcuni dei 150 scatti selezionati tra gli oltre settantamila conservati nell’archivio di quello che viene definito il maestro del realismo giapponese, Domon Ken (1909-1990). Esposti per la prima volta fuori dal Giappone, al Museo dell’Ara Pacis di Roma, celebrano il 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia e ripercorrono tutta la carriera del fotografo, dagli anni Venti ai Settanta del ‘900.
Un anno fa cadevano i 70 anni dalla tragedia che colpì Hiroshima e, tre giorni dopo, Nagasaki, causando la resa del Giappone e con essa la fine della Seconda Guerra Mondiale. Poche settimane fa il G7 e la visita del presidente degli Stati Uniti. “Settantun anni fa la morte è arrivata dal cielo e il mondo è cambiato”, così Barack Obama ha cominciato il suo discorso, tralasciando eventuali scuse che in molti avrebbero voluto da parte del Paese e rimarcando la colpa globale dell’umanità per gli orrori di quella guerra. Molto prima di Obama, Domon Ken si reca a Hiroshima con la sua 35mm. La prima volta è il 23 luglio del 1957, alle 14.40 del pomeriggio, e lui va in veste di inviato per la rivista Shūkan shinchō: ma, come annotato tra i suoi appunti, la sua esperienza lo segna profondamente e lo spinge a ritornare altre cinque volte in pochi mesi arrivando a raccogliere oltre 7800 negativi. Hiroshima viene pubblicato nel 1958 e nel 1972 entra nella collezione permanente del Museo d’Arte Moderna di New York (MoMa).
La sezione dedicata a Hiroshima è centrale all’interno della mostra che ripercorre tutta la carriera di Domon Ken e il suo percorso di ricerca verso il realismo storico. Madre infermiera e padre impiegato, su suggerimento di lei nel 1933, ventiquattrenne, Domon esordisce nel mondo della fotografia come monsei (apprendista) presso lo studio fotografico di Miyauchi Kōtarō a Ueno. Lettore accanito di libri e riviste fotografiche, partecipa a diversi concorsi e inizia ad aggiudicarsi premi e spazi su quelle stesse riviste e giornali. Inizialmente sperimenta il fotogiornalismo tradizionale e la fotografia di propaganda, curiosando tra le fila della marina militare e delle crocerossine. Poi, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, si mantiene con il lavoro di fotografo freelance e promuove il realismo sociale: si oppone così alla propaganda di governo e, convinto che “la dote fondamentale di un’opera di qualità sta nella connessione diretta tra la macchina fotografica e il soggetto”, cerca di essere testimone degli avvenimenti sociali del proprio Paese, attraverso uno sguardo franco e diretto, privo di drammaticità.
«Domon, figura austera, burbera e determinata, – scrive nel catalogo Rossella Menegazzo, curatrice della mostra e professore all’Università degli Studi di Milano – non amava viaggiare, non gli interessava ciò che stava fuori: eccezione fatta per un servizio fotografico realizzato in Cina, tutto il suo lavoro di documentazione si svolse in patria con un interesse a largo raggio, si potrebbe dire da uomo rinascimentale, che spazia dalla cultura all’arte, all’architettura, alla scultura, al teatro fino a toccare i temi socialmente e politicamente scottanti della sua epoca». Di grandissimo impatto la serie di ritratti dei Bambini di Chikuho, in cui Domon dal 1952 narra la situazione di miseria nei villaggi di minatori del sud del Giappone. Nel 1953 pubblica invece Ritratti, in cui condensa un lavoro lungo 15 anni e 83 volti tra amici, conoscenti e personalità illustri del mondo di spettacolo, politica, letteratura e teatro giapponese.
Nel dicembre del 1959 il fotografo viene colpito da una prima emorragia cerebrale, che non gli impedisce, nonostante un secondo attacco e un infarto, di continuare a lavorare con fotografia e pittura, con l’aiuto di un treppiede e dei suoi assistenti, fino al 1979, anno in cui una terza emorragia cerebrale lo coglie, lasciandolo incosciente fino alla morte. Nel frattempo realizza e pubblica l’opera enciclopedica Kojijunrei (Pellegrinaggio ai templi antichi), in cui ritrae edifici, sculture e dettagli dei luoghi spirituali costruiti tra VII e XVI secolo, a partire dal tempio del Murōji. Una selezione delle oltre 460 fotografie a colori contenute in cinque volumi, conclude il percorso della mostra, restituendo un Giappone spirituale e sospeso nel tempo.
Vale la pena prendersi del tempo per osservare e immergersi in cinquant’anni di fotografia, per scoprire il Giappone, il suo popolo e i suoi luoghi, attraverso uno sguardo sensibile e attento, in cui ritrovare l’eco di fotografi occidentali, francesi e americani a lui contemporanei, almeno nello sguardo.
Immagine di copertina: Domon Ken, Bagno presso il fiume davanti allo Hiroshima Dome, 1957; dalla serie Hiroshima. Ken Domon Museum of Photography