C’è tutto in questo “Rosenkavalier” diretto da Metha e firmato da Kupfer per la Scala: la malinconia asburgica, la fuga passatista ma anche il nuovo secolo appena iniziato con i suoi fervori avanguardisti
Tre atti di malinconia asburgica, di tempi ritrovati e sentimenti perduti, in attesa dell’addio definitivo. Zubin Mehta dirige al Teatro alla Scala, fino al 2 luglio, un Rosenkavalier da grande maestro, commovente fino al sospiro: semmai qualche lacrima, ma da un occhio soltanto, come deve essere per quest’opera di Richard Strauss. E trionfa con più di dieci minuti di applausi, a poche settimane dagli eleganti concerti tutti straussiani di metà maggio, sempre alla Scala, con Vier letzte Lieder e Also sprach Zarathustra, sommo livello ma senza lo shining dell’altra sera.
Richard Strauss scrive Der Rosenkavalier glitterando letteralmente i suoi personaggi: rievocazione spuria del settecento mozartiano, incastonato di amori e disamori d’alto rango. Così la partitura porta gli spettatori nei boudoir à la William Hogarth, sempre a ritmi ternari di valzer tipicamente straussiani – nel senso di Johann Strauss, l’austriaco dei Danubi blu di Capodanno. E dire che nelle orecchie del compositore c’erano ancora le urla invasate, crudelmente espressioniste delle Elettre e Salomè che aveva appena raccontato. Invece qui un cavaliere della rosa, tutto in bianco e paillettes, consegna pegni d’argento a una promessa sposa. Altra atmosfera: niente teste mozzate, niente danze di morte.
Eppure il novecento non è ignorato in questa fuga passatista. Strauss non oserebbe rifugiarsi in superficiali sovvertimenti dei sensi. Portatrice di tutta l’amarezza letteraria è la Marescialla, principessa matura e risoluta con cui il giovane Octavian mantiene relazioni quasi pericolose. L’aristocratica sa che dovrà prima o poi rinunciarvi, per quel disincanto cui la condanna la sua età: non più così giovane, ma priva ancora della nostalgia che solo la vecchiaia autorizza.
La Marescialla si libera del toy boy prima di rimanerne invischiata. E il suo «Ja, ja» finale, solo in apparenza distratto, rivolto al padre della giovane Sophie che l’ha sostituita nel cuore di Octavian, è segno di una pacata rassegnazione, di una vita serena ma senza più sogni, quando le ultime parole dei due giovani affidano proprio al sogno la nuova dimensione del loro amore. Donna senza qualità, la Marescialla esce di scena con un motivo ondeggiante dell’oboe che ricorda il corno onirico dietro le quinte della Terza di Mahler: e si dischiude il paradiso metafisico dei due amanti, ormai obnubilati dall’assoluto dei sentimenti.
Spettacolo elegantemente marmoreo di Harry Kupfer – le scene sono di Hans Schavernoch–, con fondali video di impressionante plasticità 3D: formidabili le dissolvenze incrociate realizzate da Thomas Reimer. Pochi elementi architettonici scorrono attraverso spazi neoclassici in bianco e nero. La scena si colora solo per la beffa al falstaffiano barone Ochs. La regia è scarna, imperturbabile; Kupfer legge azione e personaggi con uno sguardo che sfiora l’indifferenza: non rischia patetismi, anzi forse rischia poco. Ma il senso umido di foschia nell’esterno scelto per il finale, con due timide panchine accostate – una per amante – o il viale alberato che scompare in controluce dopo il monologo della Marescialla valgono lo spettacolo, che è carico di tutta la sensualità di un crepuscolo schnitzleriano, in cui anche gli oggetti inanimati sembrano stanchi.
Il cast è eccellente per tecnica e presenza. Su tutti Krassimira Stoyanova, Marescialla dal tono equilibrato e asciutto, qui mai affettata rispetto ai recenti Vier letzte Lieder. Autorevole interpretazione del basso Günther Groissböck, deliziosa la Sophie di Christiane Karg. Più imprecisa la linea di Sophie Koch, che nelle intenzioni resta un Octavian di grande esperienza.
Imperdibile la direzione di Zubin Mehta, rutilante nei valzer, dolce nei cantabili e con l’autorevolezza di chi sa come rubare i fraseggi e rimandare l’acme perché ci si ritrovi commossi senza neppure accorgersene.