Un viaggio nella scrittura di Michele Mari attraverso “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”, appena ripubblicato da Einaudi, “Euridice aveva un cane” e “Tu, sanguinosa infanzia”
Appartenente ad una rara specie di scrittori, Michele Mari naviga impavido nel mare della tradizione letteraria, a vele spiegate, come i corsari maledetti delle sue letture giovanili. Dall’immenso serbatoio di letture accumulate sin dalla giovane età, l’autore trae un raro vigore espressivo che, insieme ad una naturale dote immaginifica, ci consegna romanzi, racconti e poesie di singolare bellezza.
Il carattere solitario e inquieto dell’autore si traduce, sin dall’infanzia, in un rapporto morboso con le creazioni della letteratura; il piccolo Michele divora fumetti, romanzi gotici e fantastici, racconti e poesie. I personaggi e le storie sedimentano dentro di lui, prendono vita e lo tengono sveglio con il loro parlottare incessante. Michele comincia a giocarci, a modificare le storie, ad articolare i personaggi, fino a quando, saturo di visioni, dettagli e bisbigli, decide di dar loro vita.
Il suo primo racconto è l‘Incubo nel treno, scritto per il padre nel Natale del 1964, quando l’autore ha soli nove anni e il suo sogno nel cassetto è diventare giornalaio e leggere fumetti dall’alba al tramonto. Con questo simpatico episodio possiamo far cominciare la vocazione letteraria di Mari, che giungerà a maturazione circa vent’anni dopo e il cui primo frutto sarà il romanzo Di bestia, in bestia, pubblicato nel 1989 da Longanesi. Un desiderio di evasione e rimozione della realtà presente caratterizza le ambientazioni dello scrittore, spesso collocate in un passato imprecisato o fantastico; Mari vuole dimenticare il presente, il contingente e il quotidiano, alla ricerca di una visione regressiva e infantile dell’esperienza letteraria.
Pubblicato da Longanesi per la prima volta nel 1990, il secondo romanzo dell’allora esordiente Michele Mari, Io venia pien d’angoscia a rimirarti, torna, grazie ad Einaudi, nelle librerie con la sua straordinaria carica letteraria a stuzzicare la curiosità dei giovani e vecchi amanti di Leopardi. Un’opera coraggiosa, un vero e proprio salto nel buio, che audacemente romanza la vita – o meglio la non vita – del grande poeta ottocentesco. Audacia che poteva essere perdonata solo ad un grande studioso della letteratura sette-ottocentesca, come Michele Mari; audacia che trova spazio nel deserto biografico del grande Leopardi. Le lunghe giornate riempite dal solo studio matto e disperatissimo concedono a Mari un ampio margine di invenzione romanzesca. L’autore ci spalanca le porte del Palazzo del conte Monaldo, riempiendolo di quelle immagini suggestive che non potevano che nascere da un amatore della poesia leopardiana, come Mari; immagini, che limitate al rigore degli studi accademici, sarebbero risultate sterili e forse noiose.
Ambientate a Recanati nel palazzo del padre conte, le vicende del tredicenne Tardegardo Giacomo ci vengono narrate attraverso il diario del fratello Carlo Orazio, il quale, insospettito dagli strani comportamenti del fratello, cerca di scoprire i misteri che avvolgono quelle stanze buie, gremite di libri e fogli volanti. Sospetti inquietanti, alimentati dalle mostruose stragi che avvengono a Recanati ad opera di un presunto lupo, si fanno strada nel piccolo Orazio, che indaga le vicende dell’antenato Sigismondo, macchiato dell’antica e vergognosa accusa di licantropia e condannato dalla famiglia Leopardi all’oblio.
Così, in quello che è stato definito un vero e proprio romanzo gotico, Mari trasfigura il lato oscuro di Leopardi e la sua attrazione per la luna in una sofferta e incurabile licantropia. Un’invenzione originale e fascinosa che riporta sulla pagina uno dei temi cari a Michele Mari: il doppio, i dottor Jekyll e Mister Hyde che insidiano la vita di ognuno, e forse più di altri l’intimità dello stesso autore. Dietro questo romanzo, che in apparenza si presenta come un mero esperimento iper-letterario, si celano quelle continuità tematiche della produzione di Mari: che sono le sue intime ossessioni, il suo inguaribile rimpianto di un’infanzia perduta precocemente, la sua attrazione-repulsione per i mostri dell’immaginazione. L’azzardo di Mari non si gioca soltanto sul piano del contenuto, ma anche su quello linguistico: il romanzo si presenta proprio come un apocrifo leopardiano, dove l’intento mimetico-realistico sconfina nel gusto letterario, grazie allo stupefacente bagaglio linguistico dell’autore. La lingua che Mari adopera nel romanzo è, infatti, quella settecentesca, acquisita attraverso i lunghi anni di studio di Foscolo e Parini; infatti, se leggiamo qualche pagina dello Zibaldone di Leopardi, lo scopriamo scritto in un italiano più moderno rispetto all’arcaizzante pagina di Mari.
Evocata dal titolo, celebre verso di un idillio leopardiano, la luna si costituisce come il motore dell’invenzione letteraria. La luna è fin dalla sua prima apparizione la luna leopardiana, al quale il poeta ha impresso la violenza del suo sguardo, e che ancora oggi restituisce tutto quello che Leopardi vi ha messo dentro. È il magnetismo della luna leopardiana, è questo atto di violenza poetica ad innescare l’immaginazione di Mari e a farne defluire in modo quasi automatico quel serbatoio linguistico accresciuto e gelosamente custodito dallo scrittore.
La scelta di collocare la storia del giovane Tardegardo Giacomo all’altezza dei suoi tredici anni non è casuale; infatti, è proprio mentre si accinge a scrivere il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, dando sfogo alla sua immensa erudizione, che Leopardi decide di avvicinarsi alla poesia. Mari fa risalire questo bisogno di poesia ad una ferinità profonda e radicata nell’essere del poeta che, non potendo trovare sfogo negli studi filologici e illuministici, sfocia in quel magma incandescente di pura poesia. In questa lotta, o meglio in questa danza, tra bestialità e sublimazione letteraria ci si spalanca meraviglioso e spaventoso l’universo interiore di una delle figure più affascinanti del diciannovesimo secolo.
Quest’anno Einaudi ripubblica anche la prima raccolta di racconti di Michele Mari, edita per la prima volta da Bompiani nel 1993. Oscurati dalle successive raccolte Tu sanguinosa, infanzia e Fantasmagonia, i diciotto racconti di Euridice aveva un cane si raccolgono in un libro raro e prezioso, dove ai toni incantati, ma non per questo tenui, dell’infanzia si alternano quelli stridenti delle ossessioni mature. Incombe sulle pagine della raccolta un’atmosfera cupa e visionaria, dove a prendere la parola sono i mostri, le nevrosi e le ossessioni di un autore inquieto, nostalgico di quell’infanzia precocemente perduta e già assillata da un peculiare e tormentato sentire.
È la ferita dell’infanzia a macchiare alcune delle più memorabili pagine di questa raccolta: è il caso del primo racconto, dove Mari ci fa entrare nel giardino, adiacente un collegio per bambini, del signor Kurtz, il quale in una grande serra colleziona tutti i palloni piovuti nel suo giardino, per fissarli nella loro presenza, sottraendoli al divenire del tempo, alla dimenticanza e alla morte. La scrittura di Mari si fa visionaria nei memorabili istanti dove il piccolo Bragonzi, quasi sospeso nel tempo, brancola nella serra del signor Kurtz
Nella tenebra, dopo qualche istante, le sagome dei palloni incominciarono a farsi visibili come larve fluorescenti, prima i più bianchi, poi tutti gli altri, e a Bragonzi sembrò che tremolassero, e volessero dire qualcosa […]
Rimase così, a deambulare lentamente in quei due corridoi, allungando le mani ora su un globo in cui i pentagoni sembravano pesci neri nella boccia dell’acqua, ora su un giallore gassoso.
Un altro omaggio alla levità incantata dello sguardo infantile è quello offerto dal protagonista della Cicoria matta. Il simpatico Giovannino, smanioso di scoprire l’anatomia femminile, chiede alla mùtola, una scema di paese golosissima di cicoria matta, di mostrargli, in cambio di una cesta colma di quella prelibatezza selvatica, il suo misteriosissimo arcano di donna. Quella che si rivela a Giovannino è una visione fantastica, ai limiti dell’allucinatorio, dove l’energia primordiale, sprigionata da un’inaspettata femminilità, viene trasfigurata in cariche elettriche azzurrine, come piccoli fulmini che attraversavano la misteriosa cavità.
Altro motivo dominante della raccolta sono le nevrosi dell’età adulta, dove agli spaventosi mostri dell’infanzia si sostituiscono gli atteggiamenti paranoici e schizoidi dei protagonisti. Così, andare al cinema o arrivare a fine giornata diventano imprese faticose scandite da cervellotici ragionamenti per scegliere il film da vedere, o per evitare improbabili eventi catastrofici. Sono i protagonisti di Cinema e di Tutti vivemmo a stento ad immergerci nel mondo delle ossessioni dell’autore, dal quale forse neppure noi possiamo davvero sottrarci. L’incipit di Tutti vivemmo a stento è un risveglio nella quotidianità ripetitiva e noiosa di tutti i giorni, forse proprio per questo caricata dal protagonista di quella dose di rischio che trasforma una normalissima, per non dire mediocre, giornata in una vera e propria giungla, dove dietro ogni angolo il pericolo è in agguato e l’atteggiamento paranoico non è che uno stratagemma per la sopravvivenza. In scena è la patologia dell’uomo moderno, solo e individualista, che, lontano dalla protezione e dalla cura del branco, non può che vivere secondo una logica di lotta, guardingo, costantemente preso a valutare il rischio, a salvaguardare la propria incolumità prima di tutto. Una metafora crudele della vita di oggi, alla faccia di chi ritiene Mari uno scrittore vecchio, antiquario e senza nulla da dire al presente.
Aprì gli occhi: dunque l’ictus non lo aveva visitato nel sonno. Si alzò in fretta, con movimento bruschi e pesanti, dirigendosi verso il bagno con gli occhi semichiusi. Come ogni mattina penso che se al posto dello spazzolino avesse preso per errore il rasoio, e introdottolo in bocca lo avesse agitato su e giù, si sarebbe scorticato tutte le gengive, scalcandole fino all’attaccatura dell’osso mascellare.
Posto al centro della raccolta, il racconto eponimo Euridice aveva un cane è una chiara narrazione autobiografica; Mari ci conduce in un viaggio a ritroso nelle vecchie estati di Nasca, un piccolo paese affacciato sul lago Maggiore, dove Michelino si rifugiava nell’ombra della fatiscente e bellissima casa dei nonni. Lo sguardo incantato dell’autore cristallizza questa basilica antica in una dimensione eroica e atemporale, che sfugge al divenire, al becero progresso; è una fortezza stregata, tra i cui ruderi il passato si fa vivido e immutabile. L’atmosfera della casa è però intaccata dalla presenza dei chiassosi vicini, i Baldi, cultori del rinnovamento e del moderno. Alla fissità «quasi minerale» dell’amato nido di Nasca si contrappone la casa dei vicini, irrimediabilmente immersa nel flusso del tempo. Per sottrarsi all’indecente vista dei Baldi, Michelino si rinchiude nella buia biblioteca; la sua unica distrazione sono i pomeriggi passati nel giardino dell’anziana Flora in compagnia dei suoi cani, susseguitisi nel tempo con lo stesso nome, – guarda caso – Tabù. Agli occhi di Michelino, Flora e Tabù sono figura mitiche, immobili nel loro fascino decadente, sottratte alla temporalità dei Baldi e del mondo circostante. Così, quando Flora si ammala e viene trasferita in una casa di cura, il giovane protagonista aspetta il suo ritorno a Nasca, rifiutando gli inviti dei Baldi che si recano in visita alla vecchia signora. Nel suo tentativo di tenerla in vita, la scelta dell’orfico Michele è quella di non voltarsi. La sua Euridice sarà salvata dall’immagine del degrado e della fragilità umana per scolpirsi nella figura di un mito. Eppure il finale ha un sapore amaro; il protagonista è spogliato di quella veste mitico-eroica e ci appare, colmo di rimpianto, nella sua profonda umanità. Orfeo si è voltato e ha perso Euridice; Michele non si è voltato e ha perso la sua Euridice. Nulla rimane, tutto, fuor di oggetti feticci, è destinato a consumarsi nel destino della dimenticanza e della morte. Le ultime righe vedono Michele immerso in un istante di pura eternità, in attesa di qualcosa che non verrà, di qualcosa che potrà esistere solo nel suo ricordo.
Fra poco albeggerà, ma è questa l’ora. Adesso sembra che anche l’acqua sia sia fermata. Basta che io non mi volti, che rimanga così ancora un po’, a carezzare questo bel sasso piatto che riflette la luna. Al primo fruscìo alle mie spalle, saprò che sono arrivati.
Questa morbosità dell’autore verso l’età dell’infanzia è testimoniata da un’altra significativa raccolta del 1997, Tu, sanguinosa infanzia, dove la materia scabrosa e profondamente intima dei racconti è mediata da uno stile artificiale, pieno di maniere e reminiscenze letterarie. È solo attraverso la mediazione della letteratura che lo scrittore riesce ad avvicinarsi a questa sostanza incandescente, altrimenti ustionante. L’aggettivo “sanguinosa” non vuole evocare un’infanzia violenta, bensì quel senso di perdita che caratterizza il passaggio all’età adulta. Nella visione dell’autore, la crescita si configura come un’indecente mutilazione, che si lascia indietro oggetti magici, talismani, feticci e pezzi di vita. I pezzi di vita sono gelosamente custoditi nella casa di Milano dello scrittore, che da vero feticista accumula fumetti, biglie, figurine, Urania e quanto più possibile possa trattenere con sé. Questi amuleti, saturi di un vissuto maniacalmente trattenuto, assumono una loro elettricità, tanto da apparire allo scrittore, per sua stessa ammissione, come oggetti pericolosamente radioattivi. Otto scrittori è uno dei racconti non solo più straordinari della raccolta, ma anche il più emblematico rispetto a questo rapporto conflittuale con il passato. Il racconto è in prima persona e il giovane protagonista, chiaramente un personaggio autobiografico, racconta il suo amore smisurato per otto scrittori di mare: Conrad, Defoe, London, Melville, Poe, Salgari, Stevenson e Verne. Questi autori divorati in modo ingordo e disordinato formano per il protagonista un tutt’uno, dai contorni poco definiti, dove personaggi e storie diventano interscambiabili. Crescendo e venendo a contatto con la scuola, l’analisi e una coscienza letteraria più matura, l’io narrante inizia a percepirne le differenze e, attraverso il modo con cui parlano del mare, gli otto scrittori si giocano il primo posto in un vero e proprio torneo a eliminazione. I primi ad uscire di scena sconfitti, ma non per questo privati del loro nobilissimo valore sono Verne, Defoe, Salgari, London e Poe; ogni addio è doloroso e commuovente per il giovane protagonista, che, preso da questa febbre di catalogazione tassonomica, non riesce a fermarsi e la lotta procede fino all’ultimo sangue tra i tre rimasti, Stevenson, Conrad e Melville. Decretato vincitore è Melville, che ha saputo raccontare il mare con il suo magnetismo e i suoi enigmi meglio di qualsiasi altro scrittore. Giunta a termine l’avventura intellettuale del ragazzo, ciò che gli rimane è un incommensurabile senso di perdita. Il prezzo di aver trovato in Melville lo scrittore del mare è quello di aver perso sette straordinari compagni di vita. Il sinistro Capitano Achab, in ricompensa per la scelta del giovane, gli offre un posto a bordo della Pequod, ma ecco che il signor Melville, intuendo quel profondo senso di perdita, dà ulteriore prova della sua grandezza.
«Ci chiedevamo che tipo di viaggio avreste preferito, se un viaggio assoluto verso la conoscenza estrema, diritti spediti nell’oltre, oppure una navigazione più lenta e disordinata, con tutti i vostri brandellini di carne bene attaccati addosso, spero cogliate il senso nemmeno tanto coperto di queste parole».
Ed io, che tremavo di esultanza al sospetto di aver colto, quel senso, risposi: «Navigazione lenta e disordinata».
Ed ecco il Nostro Scrittore apparire nella nebbia e salire a bordo della Pequod con i suoi cari otto compagni, pronti a salpare verso i recessi inesplorati dell’animo umano. Ci congediamo da Michele Mari con quel medesimo senso di nostalgia di cui sono impregnate le sue bellissime pagine.