“In nome di mia figlia” di Vincent Garenq racconta l’odissea trentennale di un padre, impegnato contro tutto e tutti a reclamare giustizia per la figlia morta in circostanze strane. Sfidando, fin quasi ai limiti della follia, leggi inique e burocrazie inette sull’asse franco-tedesco. Da un fatto di cronaca vero
Per la terza volta Vincent Garenq cerca di elevare ad opera d’arte la più bieca realtà, portando sul grande schermo fatti di cronaca assai poco edificanti. Dopo lo scandalo finanziario di L’enquete, Presume Coupable narrava la vicenda di un uomo ingiustamente accusato d’abusi sessuali, mentre ora in In nome di mia figlia si declina una situazione opposta.
Siamo nel 1982 quando Kalinka, figlia quattordicenne di André Bamberski, muore in circostanze misteriose durante una vacanza in Baviera con la madre e il patrigno. Convinto che non si sia trattato di una tragica fatalità, il padre cerca in tutti i modi di giungere alla verità, trovando presto conferme alle sue paure.
Ma questo non è solo – o semplicemente – il racconto di un contabile che per trent’anni ha lottato contro la legislazione franco-tedesca per ottenere giustizia sul suo “nemico”, il medico, nonché secondo marito dell’ex moglie. È piuttosto la parabola di un piccolo uomo che si trova a combattere contro una gigantesca macchina statale. In una situazione kafkiana: ogni evidenza conferma le supposizioni di André, ma tutto e tutti remano contro di lui, dalla gente comune alla burocrazia, da chi applica la legge alla sua stessa famiglia.
Quasi smarrito in un labirinto di accuse, denunciato per calunnia e diffamazione contro Bamberski, l’uomo riuscirà infine a farsi giustizia: ma da solo. La guerra diplomatica lascia in men che non si dica il passo ad uno scontro personale fra l’accusato e l’accusatore. E dalle parole all’azione, solo contro il sistema (giudiziario, mediatico, politico), il piccolo e solo André diverrà paladino della (propria) giustizia.
Quella di Garanq è l’ennesima storia di pubblica inettitudine, ma soprattutto la triste parabola di un signor K. che un giorno, in maniera del tutto surreale, viene processato per crimini che non ha commesso da tutti quelli che lo circondano, non da ultima la madre della sua stessa figlia, in prima fila nel puntargli il dito contro, inneggiando alla sua pazzia. Una storia di ordinaria lotta alla follia condotta da Daniel Auteuil, straordinario esempio di recitazione di rara pudicizia.
E ciò che più rende la pellicola interessante è l’essere un doppio documento storico: ci istruisce su una vicenda dell’altro ieri, ma ci dice molto anche dell’oggi, considerando che per la produzione del film né Francia né Germania hanno in alcun modo contribuito, la prima impedendo qualunque ripresa in aule di tribunale, la seconda negando alcuna coproduzione.
In nome di mia figlia di Vincent Garenq, con Daniel Auteuil, Sebastian Koch, Marie-Josée Croze, Christelle Cornil, Lila-Rose Gilberti.
Ed esce un vecchio Dolan
Sull’onda del successo mondiale di Mommy e del Gran premio speciale della giuria vinto all’ultimo festival di Cannes grazie a Juste la fin du monde, prosegue la riscoperta della carriera di regista dell’appena 27enne Xavier Dolan, franco-canadese di Montreal, oggi uno dei nomi più lanciati nel cinema internazionale. Esce anche in Italia il suo terzo film, del 2102, Laurence Anyways e il desiderio di una donna, presentato nella sezione Un Certain Regard a Cannes dove vinse la Queer Palm. Simili all’assai più recente The Danish Girl di Tom Hooper, racconta il percorso esistenziale e psicologico di un professore che vuol farsi donna, e dell’amoroso aiuto che gli darà, restando accanto a lui/lei, la moglie.