Nuova edizione riveduta e corretta di “La festa del ritorno”. Un pastiche linguistico di arbreshe, calabrese, franco-germanese e italiano letterario irmato da Carmine Abate
Comincia parlando in arbrëshe, Carmine Abate, alla presentazione del suo libro a Milano. Lo scrittore di Carfizzi, la piccola comunità albanofona dell’altopiano crotonese, ci ha ormai abituati al suo immaginario costruito intorno alla mitica Hora, alla sua lingua e alla sua antropologia narrativa. La festa del ritorno, in realtà, era uscito già dieci anni fa, nel 2004, ma negli Oscar Mondadori; per approdare solo adesso, seguendo un singolare percorso iniziato direttamente tra i tascabili, in una collana “più prestigiosa”, “Scrittori italiani e stranieri”, di solito riservata alle prime edizioni.
Certo, fu il romanzo stesso a bruciare le tappe: favorito nella selezione della giuria al Campiello, anticipò l’agognata vittoria della Collina del vento di sette anni dopo.
«Ce n’è di materiale per un filologo, in questo libro» mi dice, come prima cosa, al telefono. Effettivamente, di materiale ce n’è davvero tanto: non solo l’arbrëshe, ma anche il dialetto calabrese; il germanese (la lingua degli emigranti calabresi in terra di austerità) che, qui, diventa più che altro francese (calabresizzato e non); oltre, naturalmente, all’italiano, quello letterario in particolare.
«Quando mi hanno chiesto di rivedere il libro perché lo volevano ripubblicare, è stato come se mi fossi messo a correggere il testo di un altro: stavo rivedendo tutto; volevo riscriverlo». Chi ha letto già la versione del 2004 forse fatica ad accorgersi delle varianti, ma basta procedere a un piccolo e casuale confronto per rendersi conto di quanto, almeno i dettagli, siano stati stravolti. «Lavorare sui dettagli, però, significa scrivere un’altra cosa». Il lessico, le ripetizioni, le glosse, la sintassi, la mescidazione sapiente dei vari codici, la contestualizzazione dei lemmi e delle frasi più difficili da comprendere, l’organizzazione testuale: il lavoro di revisione ha visto all’opera un linguista, forse, più che uno scrittore.
«Se la casa editrice ha ritenuto, dopo dieci anni, che fosse arrivato il momento di dare la giusta edizione a questo romanzo, è perché si tratta di temi che non vanno via con le mode». Già la Cgil, tra l’altro, lo scelse come uno dei romanzi migliori sulle tematiche del lavoro da riproporre al pubblico in occasione del centenario e in collaborazione con l’Unita. «Per me, tra i miei, è forse il romanzo più importante».
Un’immagine di partenza – almeno così dichiara l’autore: un padre, un figlio, un fuoco intorno al quale ci si racconta delle storie. L’emigrazione, il duro lavoro, i problemi, la famiglia lontana, la voglia di ritornare. Certo, sono temi piuttosto ricorrenti nella letteratura di Carmine Abate, ma qui il narratore si concede qualche libertà: quella di lasciar parlare i personaggi stessi e le loro interiorità, insieme ai ricordi che, come spesso fa la memoria, raccontano una storia diversa da quella reale, intrecciano narrazioni discordanti, interpretano l’esistenza.
E parlano – come è ovvio – la loro lingua. «Io – ma penso ogni scrittore – possiedo vari linguaggi e ogni romanzo parla le sue lingue». Quello del pastiche è – in Italia, specialmente – un modo letterario piuttosto in uso. Come non ricordare, non solo Camilleri, ma anche Meneghello, Pasolini, Gadda? Anche se, nei romanzi dello scrittore calabrese, quelli in altri codici sono solo degli inserti; lessicali, per lo più. La sintassi resta, prevalentemente, modellata sugli stilemi dell’italiano letterario. A caratterizzare lo stile di Abate sono anche la presenza fitta di aggettivi e descrizioni e la narrazione che spesso si confonde con i discorsi diretti e indiretti.
La mescidazione linguistica, insomma, trova un suo ideale piano di elaborazione nella letterarietà caratteristica dei romanzi italiani degli ultimi decenni, ormai lontani dalle siderali sperimentazioni linguistiche novecentesche. Ma, per quanto ammorbidito e “leggibile”, il risultato resta comunque quello di una elevata cura formale e di un raffinato espressionismo distante dalla banalità macchiettistica.
“La festa del ritorno” di Carmine Abate (Mondadori, pp. 180, 15 euro)