A Milano ritorno alla provocazione per Rodrigo García. Il gioco, però, non colpisce come dovrebbe…
Anatomia dell’omicidio del teatro classico con movente freudiano. Si tratta di 4, titolo del nuovo spettacolo presentato al CRT da Rodrigo García, regista argentino trasferito in Spagna tra i più trasgressivi di oggi, contestato per tradizione e affetto nelle sale milanesi. L’ultima volta con denuncia annessa di animalisti, uniti in crociata per salvare un astice da sicura cottura nello spettacolo Incidenti, uccidere per mangiare. Seguendo una poetica di libere associazioni di immagini, García scandaglia la violenza animale, vegetale e minerale che ci circonda, alla ricerca delle ipocrisie del quotidiano. Ben accette le polemiche a fine spettacolo, tanto quanto gli applausi, per smascherare la cecità ineducabile degli spettatori: rarissimamente ho sentito fischiare in un teatro di prosa, con lui succede.
4 è il numero degli attori sul palco, incatenati tra loro in apertura per mistica interconnessione, sempre mantenuta nel mosaico di performance di cui sono carnefici e vittime nei restanti novanta minuti. Galli in sneakers usati come plettri o stracci per pavimenti, bambine under dieci con trucco e parrucco da settimana della moda come in Little Miss Sunshine, convulsi accoppiamenti su un’enorme saponetta formato talamo nuziale, sedute psicanalitiche di un samurai nostalgico e sentimentale.
Senza soluzione di continuità García sottopone attori e pubblico a una prova dietro l’altra, nel tentativo di aprire una porticina empatica tra palco e platea, al di là delle trame borghesi di tradizione, dei Čechov e Ibsen da salotto. Si tenta addirittura una mescolanza di attori e spettatori, improvvisamente chiamati in scena più per celia che per cortesia, con una malcapitata che si confessa apertis verbis sui suoi basic instincts, doggy style incluso.
Insomma un po’ si fatica a non parlare di provocazioni, che sono continue e disperatamente ricercate, ma spesso didascaliche – vedi il sesso clean nel materasso insaponato. Tutto preso dalla ricerca della verità, nemmeno con V maiuscola ma addirittura in caps lock, García dimostra in 4 capacità di invenzione, che però è sempre fredda se non fine a se stessa. E senza che manchino passaggi anche incisivi, si fatica a seguire la direzione dello spettacolo, che a dispetto del giusto fracasso prodotto manca di emozioni.
A García interessa la non-narrazione. Come il primissimo Wim Wenders in Super8 – dice il regista argentino – «che non ha in mente un racconto ma lascia ciascuno spettatore alla sua storia, montata in testa mentre le immagini scorrono». Così si lavora sulle connessioni e i rimandi, bandendo Shakespeare e impedendogli anche solo di avvicinarsi al palco. Eppure in questo regno dell’immagine di parole ce ne sono fin troppe, che cuciono, spiegano, giustificano, e anticipano ciò che accade. Scuse non richieste e fonti di confusioni quasi delfiche, con frasi che racchiudono opposti significati, non sempre così rilevanti.
Ottime le intenzioni, dieci e lode per la teoria: «la provocazione è l’obiettivo della pubblicità, della società del consumo, invece in teatro l’obiettivo è la comunicazione»; «non mi interessano le performance violente, io voglio essere vicino al pubblico»; «non scrivo personaggi: in scena mi aspetto di vedere la personalità dell’attore». Ma in questo lavoro onirico e un poco autobiografico di García, c’è la sfida ma manca lo sfidante, o forse anche viceversa. E non basta un finale con dinner party di piante carnivore per segnare davvero chi esce.
4, di Rodrigo García, andato in scena al CRT Teatro dell’Arte fino al 30 giugno