Dal 29 giugno al 25 settembre 2016 Milano rende omaggio a Emilio Isgrò con una grande antologica contemporaneamente allestita in più sedi, a cura di Marco Bazzini, nata da un’idea dell’Archivio Emilio Isgrò e prodotta da Comune di Milano, Palazzo Reale, Intesa Sanpaolo, Centro Nazionale Studi Manzoniani e dalla casa editrice Electa. A Palazzo Reale, una selezione di lavori storici ricca di oltre 200 opere tra libri cancellati, quadri e installazioni; alle Gallerie d’Italia, l’anteprima del celebre ritratto di Alessandro Manzoni dipinto da Hayez e cancellato in bianco; a Casa del Manzoni, I promessi sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati. Andrea Contin le ha visitate per Cultweek.
“Oggi, 6 febbraio 1971, dichiaro di non essere Emilio Isgrò”.
L’incipit della mostra non è dei più rassicuranti: una negazione continua dell’identità dell’autore ci accoglie. Il dubbio circonda l’ignaro visitatore e, nonostante da un angolo spunti la tardiva riaffermazione di essere quell’Emilio Isgrò che quarant’anni prima negava di essere, è inevitabile domandarsi: Emilio chi?
Chi è l’Emilio Isgrò la cui avventurosa vita si disgrega nelle testimonianze frammentarie e contraddittorie di uomini di stato, artisti, scrittori, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini, nel libro omonimo del 1975? Di chi parlano i misteriosi fogli dattiloscritti e autografi, illuminati da cupe torce elettriche in un clima poliziesco alla Simenon o meglio alla Sciascia de Il giorno della civetta, in una sequenza documentaria che ricorda il Camilleri de La concessione del telefono? Gli indizi, disseminati ad arte, non conducono da nessuna parte. Non è una soluzione né una certezza quella a cui porta l’indagine in cui siamo stati coinvolti, ma l’affresco fantastico di un mondo fatto di case e viaggi, presenze e assenze, abitudini e manie, vizi e virtù, guerra mondiale e spionaggio. Negando si afferma, ma affermando si confonde.
È con questo spirito, già scosso dal torpore delle abituali certezze e ripulito dall’attesa conformista di facili sicurezze estetiche, che ci si inoltra tra le opere, che non si susseguono per cronologia ma per dialogo reciproco. È un percorso non lineare ma complesso e aperto a deviazioni e interpretazioni, possibile e vivo proprio grazie all’interazione continua e attiva con lo spettatore. L’avventurosa vita diventa così anche la nostra, condivisa dall’artista come un dono, uno scambio che antropologicamente permette allo spirito del donatore di viaggiare assieme al dono stesso, creando dei legami tra gli individui che vanno ben al di là del puro scambio “economico” e culturale. L’intero corpus di opere diventa così la negoziazione di un significato condiviso del concetto stesso di realtà tra l’artista e il suo pubblico, perché se è vero che la realtà che consideriamo oggettiva è una rappresentazione che si costruisce nella relazione con gli altri, davanti agli indizi e alle camuffe di Isgrò quella negoziazione si riapre e i significati vengono rimessi in discussione attraverso una narrazione simbolica e condivisa.
È inevitabile: quando il veicolo del senso delle cose, sia esso parola o immagine, diventa usuale, abituale, e il messaggio si indebolisce fino a perdersi, succede come alla Gioconda nel momento in cui diventa icona e al linguaggio quando diventa luogo comune. E allora, così come i baffetti e il sarcasmo di Marcel Duchamp ci costringono a ripensare il viso di Monna Lisa, i segni di cancellatura di Isgrò, che nascondono del tutto o in parte la parola scritta o l’immagine, non ci stanno privando del senso ma anzi, al contrario, ci stanno suggerendo, o forse maieuticamente portando, a rileggere con strumenti nuovi il significato stesso di senso e di realtà. La cancellatura di Isgrò, suo segno distintivo e cifra stilistica immediatamente riconoscibile, non è mai censura ma è anzi rivelazione e quindi, in questo senso, poesia. Una Jacqueline Kennedy tra le righe, invisibile e dunque presente e viva, si china sul marito colpito a morte nel punto indicato dalla freccia. L’essere perfettissimo che, come una Volkswagen, va, e va, e va, è presente in tutte le opere in forma di allusione, simbolo, dettaglio ingrandito infinite volte, parola cancellata e parola superstite, immagine rappresa, Grecia antica, Mao Tze-Tung. Narrazione che è vita quotidiana come rappresentazione, commedia umana, teatro, in un rimbalzo continuo di straordinaria intensità.
Non sempre, nella produzione di Isgrò, la freschezza e la brutale onestà si mantengono intatte. Sfiora a tratti l’autocitazionismo vagamente lezioso in alcuni lavori più recenti, dove l’intelligenza ruba un po’ di spazio all’intuizione e la linearità all’universalità, e la cancellatura è a volte un po’ di maniera. E non convince appieno neanche la manzoniana cancellatura nel caveau delle Gallerie d’Italia, seconda tappa del percorso milanese della mostra, complici forse la brutta qualità della riproduzione del ritratto di Manzoni di Hayez – su cui l’artista ha posto i suoi segni bianchi lasciando libero solo lo sguardo dello scrittore – e l’ascolto forzato della benemerita e munifica storia del mecenatismo bancario dall’Ottocento a oggi. Ma tutto passa, e si torna in alto forse ancor più che con i lavori storici, quando si arriva alla neo-restaurata casa del Manzoni, dove il fascino un po’ feticistico dell’oggetto-reliquia dello scrittore dialoga con l’opera dell’artista con un tono di voce che è quello della chiacchiera tra amici, in cui tra facezie e pause si può parlare dell’assoluto, della vita e del suo perché, magari quando già una parte importante di essa è trascorsa.
Il primo volume della Quarantana – copia dell’edizione del 1840-1842 dei Promessi sposi con le litografie di Francesco Gonin, su cui è intervenuto Isgrò – poggia sul minuscolo tavolino su cui scriveva il Manzoni, circondato dagli arredi e dagli oggetti dello scrittore, tra cui la celeberrima tabacchiera del ritratto di Hayez. Da qui in poi è un tuffo, un’ipnosi. Al primo piano della casa, tra abiti, quadri e oggetti della quotidianità manzoniana, i volumi di Isgrò dialogano con l’ambiente e con le opere che li circondano attraverso cancellature che non cancellano ma adombrano parole, che quasi emergono dal nero e dal bianco (dal bene e dal male?) senza censura alcuna, a sostenere le parole superstiti in un discorso pienamente e compiutamente poetico. E non sono cancellate nemmeno le figure, bensì ammantate di luce e ombra, immerse in un alone spirituale che le trasfigura. Pittura vera, non readymade e neanche gioco concettuale.
Tra Manzoni e Isgrò si crea una sinergia che passa attraverso figure, fantasmi, simboli e paesaggi visti come in lontananza, nello spazio o nel ricordo, e che trascende il fare artistico socialmente inteso. L’artista di talento, il poeta, l’uomo intelligente e provocatorio (ma sarà poi vera provocazione?) lascia qui la scena al Maestro che, passata la buriana del negare, dell’affermare e del citare se stesso, semplicemente è.
Emilio Isgrò, a cura di Marco Bazzini, Palazzo Reale/Gallerie d’Italia/Casa del Manzoni, fino al 25 settembre
Immagine di copertina: Foto di Paola Arpone