Due festival estivi in bilico tra teatro e arti performative per una riflessione “geologica” sullo stato dell’arte. Quale futuro per la performing art?
Se c’è una cosa che il Novecento è riuscito a mettere in chiaro è l’anima spuria del contemporaneo. Un’epoca-risacca, la nostra, dove alla divisione dei compiti, dei ruoli e del lavoro tipici del sistema capitalista, corrisponde – quasi in un contro-movimento che sa di contrappasso – un’ibridazione continua, una contaminazione di materiali, generi, ambiti. Ne sanno qualcosa le discipline artistiche che, col postmoderno, hanno dovuto abbandonare un modello pressoché pangeistico (si pensi all’egemonia dell’arte figurativa) per riorganizzarsi in una tettonica dell’arte. Musica, danza, pittura, scultura, cinema e teatro: placche che nei contesti adatti danno vita a nuove formazioni, a espressioni ibride e vitali di una dimensione frazionata e cangiante. È il caso di due appuntamenti estivi, due festival la cui natura, negli anni, si è fortemente votata alla multidisciplinarità, facendosi amalgama tra arte e teatro.
Santarcangelo a due teste: protettore dei teatri in piazza e delle performance in periferia
Con l’annuncio della nuova direttrice Eva Neklyaeva, in carica per il prossimo triennio 2017-2019, finisce l’era di Silvia Bottiroli ma, ne siamo certi, non la propensione della manifestazione romagnola a una spiccata sperimentazione. Nell’edizione 2016, che del lavoro della Bottiroli è come una summa (con i ritorni, fra gli altri, di Amir Reza Koohestani, Cristina Kristal Rizzo e Mårten Spångberg), si è registrata una certa tendenza al decentramento, a occupare cioè gli spazi più lontani dal cuore del festival, idealmente localizzato in piazza Ganganelli. Villa Torlonia, l’ITSE Molari, la stazione ferroviaria di Santarcangelo, il centro commerciale Teorema sono solo alcuni dei luoghi attivati dal festival a dimostrazione di come la contaminazione di arti si traduca, quasi meccanicamente, in contaminazione di spazi. Lontano dal cuore, dunque, ma non certo dagli occhi sono anche le installazioni-performative che hanno trovato casa presso l’ex-stabilimento della ditta Paglierani – azienda che progetta e produce macchine e sistemi per pesatura, confezionamento e insacco – oggi destinato a “deposito di canoe, mobili e carri allegorici in carta pesta”. Insomma un ambiente dove tutto ci si aspetterebbe eccetto che trovare il mare.
THIRST di Voldemārs Johansons altro non è infatti che una suggestiva video-installazione che riproduce un tormentatissimo paesaggio marino in burrasca con tanto di ambientazione sonora e pozzanghere annesse. Una lunga ripresa ininterrotta e senza tagli di montaggio che offre al visitatore la possibilità di immergersi in una dimensione “contro natura”, alla maniera delle opere romantiche di Caspar David Friedrich. La domanda che ci si pone, mentre si osserva ipnotizzati il fluire delle onde che si infrangono su un’ipotetica scogliera, è se la “finzione aumentata” dell’installazione dell’artista di Riga non finisca per sacrificare al proprio realismo percettivo qualsiasi portata evocativa, trasformando il sublime, tema ricorrente nell’opera romantica, in qualcosa di misurabile, come i decibel del mare o la possibilità di imprigionare la sua furia su celluloide.
Decisamente meno movimentato è invece GHEZZ, il diorama “boschivo” realizzato dal collettivo Cosmesi che, partendo dalle osservazioni del filosofo americano Henry David Thoreau, punta a coniugare natura e artificio in un’opera dove “il vivente e l’oggettuale coesistono”. Un’installazione che, per quanto autonoma, fa anche da contrappunto a Di natura violenta, lo spettacolo che sempre il gruppo di Eva Geatti e Nicola Toffolini ha presentato al festival e che, come la sua controparte scenica, risente di un’eccessiva ambizione intellettuale. Tanto nella forma quanto nella sostanza, la ricerca di Cosmesi sembra più interessata alla fase di progettazione che all’opera in sé e alla sua fruizione da parte del pubblico, sia esso di spettatori o di visitatori.
Certo è che l’aspetto contemplativo celebrato da GHEZZ e THIRST ben si inserisce nel discorso complessivo di questa edizione del festival incentrata sulla percezione del tempo, sulla durata e la ciclicità di ogni prodotto artistico. Una riflessione che, se da una lato si fa bilancio inevitabile di una direzione triennale, apre dall’altro a considerazioni più generali su come l’interazione di aree artistiche diverse abbia generato a Santarcangelo un paesaggio nuovo e in costante divenire: una faglia, dove a mutare non è solo la programmazione e l’offerta performativa ma la morfologia stessa del territorio. Basta aggirarsi per la città per notare i murales realizzati in occasione della quarantesima edizione da street artists del calibro di Ericailcane, Dem, Run ecc., diventati oggi parte integrante dell’orizzonte urbano; è sufficiente recarsi ai margini dell’abitato per imbattersi nello straordinario villaggio post-industriale di Mutonia, che, pur non essendo nato in seno al festival, di certo al festival è rimasto strettamente connesso per tutti questi anni, partecipando con le sue macchine, i suoi artisti e le installazioni steam-punk. Tracce dunque che lungi dall’essere semplici impronte fossili, sono materia magmatica, inclusiva e agglomerante che, in alcuni casi, si fa perfino comunità: espressione vivente del fare arte contemporaneo.
Centrale Fies e Drodesera: Qui e ora…sempre.
E proprio di comunità si può parlare spostandoci a qualche centinaia di km a nord da Santarcangelo, in un altro punto caldo della “dorsale performativa italiana”: parliamo di Dro, ridente località trentina, dove si è appena conclusa la 36esima edizione del festival di arti performative organizzato da Centrale Fies.
Crocevia di esperienze diverse, la splendida centrale idroelettrica che è sede della manifestazione è diventata nel corso degli anni vera e propria factory, alla maniera warholiana: un luogo dove non ci si limita a immagazzinare le energie dei vari artisti, ma le si fa fermentare attraverso un sistema di residenze, ospitalità, crescita e sviluppo, di cui il festival rappresenta la punta dell’iceberg, la restituzione alla cittadinanza. Una sorta di ecosistema a sé stante, con tanto di foresteria, spazi dedicati al co-working, atelier, bar, giardino, ecc.; un esempio che trova difficilmente un corrispettivo su scala nazionale votato con altrettanta convinzione e disinteresse a una sperimentazione articolata e vitale.
E se in quest’ultimo weekend di programmazione ad alternarsi nelle sale delle turbine o in quella di comando, sono stati i nomi più noti del panorama teatral-coreutico di ricerca nostrano (Anagoor, Teatro Sotterraneo, Collettivo cinetico, Alessandro Sciarroni), ad aprire le danze, venerdì 22, ci ha pensato invece Luigi Presicce con Ascesa alla vetta della Santa e del mago dell’alba dorata.
La performance prosegue il ciclo dell’artista salentino su Le storie della Vera Croce – le cui tappe precedenti sono documentate in una video-esposizione nella galleria dei trasformatori al piano terra della centrale – e, ispirandosi iconograficamente ai cicli di Piero Della Francesca e Agnolo Gaddi (rispettivamente nella basilica di San Francesco ad Arezzo e in quella di Santa Croce a Firenze), conduce lo spettatore all’intero di un vera e propria rappresentazione sacra. Qui al cospetto di Sant’Elena e di una figura incappucciata (l’occultista Aleister Crowley stando alle “note di regia”), otto figuranti fanno roteare e cozzare tre grandi travi di legno sospese, mentre intonano in loop un coro di vocalizzi. Una sorta di tableau vivant in movimento, che è rito, supplizio e, allo stesso tempo, allegoria: la croce destrutturata e la santa che, in una specie di gioco delle tre carte, sposta su una mappa di Gerusalemme tre piccoli crocifissi, rimandano infatti alla diatriba sulla ricerca della vera croce e la collocazione del luogo del Calvario. A questo piano di lettura si aggiunga poi quello delle vicende di Crowley che nel 1902 tentò la scalata alla vetta del K2: un ideale tentativo di raggiungere il divino che venne puntualmente sventato (la spedizione fallì a quota 6600 metri) ma che racchiude nello sforzo titanico, tutto il fascino dell’hỳbris umana simile a quella che spinse Adamo a cogliere la prima mela.
Appollaiata sopra i penitenti, la figura del “mago” Crowley completa e, in qualche modo, cambia di segno all’intera composizione di Presicce, dove la dimensione misticheggiante è esaltata dallo sforzo costante degli interpreti (il caldo e la durata complessiva sono notevoli), ma soprattutto da una sensazione di assoluta atemporalità. Tanto che ad osservare la processione ordinata e quasi ieratica degli spettatori intorno allo spazio scenico, vengono in mente le parole di Marina Abramović sul concetto stesso di performance:
Quando lo spettatore sarà, con la propria mente e con il proprio corpo, nello stesso luogo e nello stesso tempo del performer, allora potrà avvenire una sorta di scambio di energie. E il tempo non esisterà più.
Nel presente il tempo non esiste. Il tempo vive nel passato e nel futuro perché è lì che lo possiamo pensare. Ma nel presente, quando sei completamente nell’hic et nunc, non c’è tempo. Appena sussiste la giusta energia, l’audience entra nello spazio senza tempo del performer e finalmente l’esperienza trasforma la vita in verità.
Ed è forse proprio questa caratteristica atemporale e “rivelante” dell’arte performativa e della sua esperienza a fare di questa forma (e dei luoghi dove la si pratica) una delle espressioni più rappresentative del contemporaneo artistico. Una terra di nessuno, per certi versi, un far west densamente abitato dove, obietteranno i più, tra legge e anarchia il passo è breve. Tutto vero. Eppure quella della performance è anche l’unica circoscrizione che, coniugando multidisciplinarità e resilienza, è in grado di resistere in mezzo ai continui smottamenti (concettuali, relazionali, di tendenza e di durata) che agitano il nostro tempo. A garantirci, in un certo senso, una qualche possibilità di sopravvivenza e di evoluzione artistica.
Dròdesera Fies Festival
Santarcangelo dei teatri. Festival internazionale del teatro in piazza
Immagine di copertina: una scultura nel villaggio di Mutonia