Sotto la pioggerellina di marzo legge il bambino…

In Letteratura, Weekend

Un’antologia di poesie da libri di scuola degli anni Cinquanta, un pomeriggio sul finire delle vacanze: basta questo per passeggiare (molto volentieri) tra i propri ricordi di lettura tra mamme tutte belle, cavalline storne, capitan Blek e qualche acerbo sussulto erotico sfogliando Kriminal e Satanik

La nostalgia a volte gioca strani scherzi. In un momento di accidia agostana ho ripreso in mano un fumetto che leggevo da bambino e mi sono immerso in un’antologia dedicata alle poesie dei libri di scuola degli anni Cinquanta, Che dice la pioggerellina di marzo (Manni editore, introduzione di Piero Dorfles, premessa di Piero Manni), lasciandomi attraversare dai ricordi.

Che cosa leggevo da bambino? Quel che mi capitava sotto tiro, in casa carta stampata ne circolava pochissima. E quindi i libri che avevo ricevuto in regalo. Ricordo dei miei sei-sette anni le riduzioni di Gulliver e Alice, un Gatto con gli stivali della Lucchi dove c’entravano qualcosa Fossombrone e la salsapariglia, un po’ di volumi della meravigliosa “Scala d’Oro” della Utet.

E il Librocuore di De Amicis – gli adulti lo dicevano così, tutto attaccato – che avevo ricevuto in dono per la prima comunione, dolciastro e appiccicaticcio con i suoi tamburini sardi e le sue piccole vedette lombarde, con l’infame Franti e il ragazzo “straniero” venuto a Torino da Reggio Calabria, oggi a rileggerlo chissà, allora Garrone e il maestro mi piacevano persino. E i libri condensati di Selezione del Reader’s Digest rimossi dalla memoria, non ne ricordo un titolo o una riga, e sì che ho dimenticato ben poco.

La biblioteca scolastica con Cronin e Il gran sole di Hiroshima e Pearl S. Buck sarebbero arrivati alle medie, assieme a un ragazzone lungo lungo, Alberto, vicino di casa anzi di campagna e possessore di una doviziosa collezione di gialli. E assieme a Salgari, ma io preferivo Verne e andavo matto per il ciclo di Ventimila leghe sotto i mari e soprattutto per l’ultimo episodio, L’isola misteriosa. Poi mi cercavo sulla Garzantina, altro regalo, il dugongo e il narvalo.
Oltre a queste letture e al punitivo e desolante Senza famiglia, c’erano i sussidiari e i libri di lettura, dappertutto Renzo Pezzani e Angelo Silvio Novaro che poi era il padrone dell’Olio Sasso, a ripensarci oggi fanno buonumore e un pizzico di tenerezza come tutte le buone cose di pessimo gusto, e che dice la pioggerellina di marzo e tre casettine dai tetti aguzzi un verde praticello un ruscello e son piccin cornuto e bruno me ne sto tra l’erbe e i fior e o monachine scintillanti e belle che il camin nero inghiotte e c’è un neonato in casa mia chi non sa che cosa sia e passan sul prato il nonno e il nipotino il nonno è vecchio il bimbo piccolino e un bacio a mamma uno a nonnetta il bimbo allegro a scuola va e primavera vien danzando vien danzando alla tua porta sai tu dirmi che ti porta? e che tanto stanco sono che tanto stanca sei il campanile batte lentamente le sei.

Scommetto che, se siete sotto i cinquant’anni, non ne riconoscete neppure una, noi le sapevamo a memoria e ancora le ricordiamo, insomma non proprio tutte e per intero ma a squarci sì: Novaro, appunto, e poi Aldo Palazzeschi (ma in questa antologia manca, imperdonabile, la fontana malata che fa ploffete ploppete clocchete), Giovanni Prati, Enrico Panzacchi, Lina Schwarz, Giovanni Pascoli, Zietta Liù, Guido Gozzano.

Mandavamo a memoria, quand’eravamo bambini, anche i poeti maggiori, ed era tutto sommato un gran bell’allenamento, ci sarebbe venuto buono alle gite per ricordarci le canzoni di Lucio Battisti: la donzelletta vien dalla campagna e soffermàti sull’arida sponda, oh Valentino vestito di nuovo come le brocche del biancospino e settembre andiamo è tempo di migrare, ei fu siccome immobile e i cipressi che a Bolgheri alti e schietti, o cavallina cavallina storna e la nebbia a gl’irti colli e viene viene la Befana, sul castello di Verona batte ‘l sole a mezzogiorno e dov’era l’ombra or sé la quercia spande. Leopardi, Manzoni, Pascoli, D’Annunzio, Carducci.

A volte, questi monumenti suscitavano robuste dosi di derisione: ben prima che uscisse Ecce bombo di Nanni Moretti, era una gag corrente quella dei dodici figli perduti di Carducci (sei nella terra fredda, sei nella terra nera), preso di mira anche per quel suo t’amo pio bove e mite un sentimento (Toti Scialoja: “T’amo pio bue/ anzi ne amo due”). Mentre sul Foscolo della “Zacinto mia che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere” calava la scure di Carlo Emilio Gadda: perché, si può nascere non vergini, ma che modo di poetare è questo? Povero Foscolo. Anche il mite fanciullino Pascoli assecondava la nostra stupidèra: la commovente cavallina storna che portava colui che non ritorna, il babbo fattore del poeta ucciso da un sicario in un agguato, agli ultimi versi in cui la madre chiede alla cavalla di confermare o smentire il nome del probabile assassino, quando la maestra li scandiva (“fece un nome, sonò alto un nitrito”), l’aula si trasformava in una scuderia in delirio mentre il capoclasse segnava alla lavagna i nomi dei nitrenti.

C’è da dire che non avevamo rispetto per molte cose che facevano venire la lacrimuccia agli adulti: e quando al cinema parrocchiale ci capitò di vedere Casablanca, la scena più straziante, il congedo di Ingrid Bergman da Humphrey Bogart (“Addio Rick, Dio t’assista”) ispirò a noi teppisti precoci una nuova imprecazione: Dio taxista.

Le antologie scolastiche ci mettevano del loro a farsi sbertucciare, proponendo una letteratura da tinello e da sagrestia, già desueta cinquant’anni fa eppure fonte del gusto medio che si andava a formare. I libri di lettura erano nati con il fascismo, per forgiare e indottrinare la gioventù: libro e moschetto fascista perfetto, ricordate lo slogan? Dissolta la dittatura, nel dopoguerra democristiano poco era cambiato, se nel programma ministeriale del 1955, presidente del Consiglio Scelba, ministro alla Pubblica Istruzione Gui, la scuola primaria aveva «come suo fondamento e coronamento l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Insomma libro e aspersorio verginello da oratorio, e avanti con Dio patria famiglia. Oggi se ne ha rimpianto, avendone da tempo serenamente preso le distanze nella vita, e sono oggetti di modernariato che ripercorriamo divertiti, che vorremmo sentire riproposti da Paolo Poli.

Dio era, oltre che in cielo in terra e in ogni luogo, in ogni pagina. Nella vecchia madre di Ungaretti che invoca perdono per il figlio davanti all’Eterno. Nell’angelo custode di Renzo Pezzani che veglia sul bambino ma: “E se ammala? E se muore?”/ “Riportalo al Signore!”. Nella Pasqua, sempre di Pezzani, dove “ogni bimbo guarda su/ e nel ciel vede Gesù”.

C’era una muffa da cripta che avrebbe fatto la delizia di Stephen King, in molti di quei versi che fecero di noi, senza saperlo, dei precoci consumatori di horror: bambini morti, nonni che presto se ne andranno, rondini abbattute mentre tornano al nido con il verme in bocca, “la morte con la sua lampada accesa” che veglia accanto ai due fanciulli dormienti di Pascoli. E legioni di orfani, anzi, di orfanelli. Muore persino, comicamente, il prode Anselmo. Di sete, perché ha l’elmo forato e non può trattenere l’acqua.

La figura centrale della famiglia era, come dubitarne, la mamma. Una mamma formato canzonetta sentimentale da tenore, son tutte belle le mamme del mondo quando un bambino si stringono al cuor e mamma solo per te la mia canzone vola. Mamme con i capelli bianchi ma sempre belle, mamme da dipingere o da ricoprire di mantelli e broccati, angeli di bontà votati al sacrificio come quella della fascistissima Ada Negri:

Vedova, lavorò senza riposo
per la bambina sua, per quel suo bene
unico, da lo sguardo luminoso;
per essa sopportò tutte le pene,
per darle il pan si logorò la vita,
per darle il sangue si vuotò le vene.
La bimba crebbe, come una fiorita
di rose a maggio, come una sultana,
da la materna idolatria blandita;
e così piacque a un uom quella sovrana
beltà, che al suo desio la volle avvinta,
e sposa e amante la portò lontana!…
…Batte or la pioggia dal rovaio spinta
ai vetri de la stanza solitaria
ove la madre sta, tacita, vinta:
schiude essa i labbri, quasi in cerca d’aria;
ma pensa: “La diletta ora è felice…“
E, bianca al par di statua funeraria,
quella sparita forma benedice.

Avremmo dovuto attendere una decina d’anni perché Francesco Guccini offrisse una diversa chiave di lettura: “Di mamme ce n’è una sola/ ma caro figliolo, di babbi uno solo non sempre ce n’è”.

Stuoli di morti, di martiri, di sacrificati sull’altare, anzi sull’ara del supremo bene, anche nelle poesie patriottiche: eran trecento eran giovani e forti, il morbo infuria il pan ci manca sul ponte sventola bandiera bianca, si scopron le tombe si levano i morti i martiri nostri son tutti risorti. Un passato così glorioso, nel dopoguerra democristiano, in un’Italia ancora largamente contadina e artigiana e, nei libri di lettura, molto più preindustriale e arcaica di quanto in realtà non fosse (il miracolo economico era alle porte) doveva servire, assieme alla religione, come consolazione per il magro presente, per una miseria da accettare in mansuetudine e letizia, come nell’esemplare La gioia perfetta di Diego Valeri:

Com’è triste il giorno di maggio
dentro al vicolo povero e solo!
di tanto sole neppure un raggio;
di tante rondini, neanche un volo!
Pure c’era in quello squallore,
in quell’uggia greve e amara,
un profumo di cielo in fiore,
un barlume di gioia chiara.
C’era… c’erano tante rose
affacciate ad una finestra,
che ridevano come spose
preparate per la festa.
C’era seduto sui gradini
d’una casa di pezzenti,
un bambino, piccino, piccino,
dai grandi occhi risplendenti.
C’era in alto una voce di mamma,
– così calma, così pura! –
che cantava la ninna nanna
alla propria creatura.
E poi dopo non c’era più nulla…
Ma di maggio alla via poveretta
basta un bimbo, un fiore, una culla
per formare una gioia perfetta.

Anche qui, soccorrevano la parodia e il dileggio. E queste e consimili poesie diventavano “M’illumino di melenso”.

Che cos’altro leggevo, da bambino? Oltre ai libri di lettura, che erano educativi, montagnole di fumetti, chili, quintali di fumetti. Anzi, di “giornalini”, come li chiamavamo allora. Che erano diseducativi, spiegherò fra poco perché.

Non ricordo di averne comprato mai neppure uno, eppure passavo pomeriggi (d’estate, giornate) a divorarli. Averli era semplice, allora non c’erano collezionisti e fumettoteche, a nessuno sarebbe venuto in mente di chiamarli graphic novel, eppure il fumetto-crossing funzionava, eccome. Bastava radunare una dotazione minima (qualche prestito non restituito, qualche regalo, qualche albo vinto a murella o alle biglie) e le possibilità di scambio erano infinite.
Leggevamo fumetti non troppo raffinati, qualche volta atroci. Tex Willer no, era per i più grandi. Il Corriere dei Piccoli e Il Vittorioso pochino (poco anche Topolino, ma già di più). Qualche rara volta, ed era festa, Lucky Luke e Michel Vaillant. Il più delle volte L’Intrepido e Il Monello, i fumetti di guerra che però ci stufavano perché non c’era un protagonista fisso, Tiramolla e Cucciolo e Nonna Abelarda che non mi piacevano, e poi i simil-western da oratorio che circolavano allora (ce n’era anche uno cattivo, Kinowa, che aveva una maschera con le corna e scotennava gli indiani per vendicarsi, ma non incontrava troppo: era, si direbbe oggi, “di nicchia”).
Il grande Blek era uno di questi, era forse il più importante di questi. L’aveva inventato nel 1954 un trio di torinesi (Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris) che, forte del successo di Capitan Miki, 400mila copie vendute agli albori degli anni ’50, si era consorziato in una sorta di “officina del fumetto”, usando la sigla collettiva EsseGesse. Blek Macigno alias il grande Blek era un trapper americano erculeo, biondo e lungocrinito, che non pativa il freddo (se ne andava in giro per le foreste con il berretto di castoro d’ordinanza e uno striminzito gilet di pelliccia, a petto nudo) e non sapeva di dover parlare in inglese. E infatti si chiamava Blek e non Black, così come un paesino vicino al suo accampamento si chiamava “Caunt River”.
Ecco, la prima cosa da dire è che Blek Macigno non sapeva le lingue esattamente come noi ragazzi degli anni ’50. Americano, ma sotto sotto italiano prima del boom. Come Totò che nei film diceva “cocomero” per montgomery e “calamari” per alamari, che storpiava Moet & Chandon in “mo’ esce Antonio” e, all’estero, tastava il terreno: “Noio vol au vent savuà…”. Noi facevamo lo stesso: dicevamo crek per “cracker”, cingomma per “chewing-gum”. Blek Macigno ci assomigliava.
C’era un’altra cosa in cui il forzuto Blek ricordava Totò, e in genere il cinema leggero dell’epoca: aveva bisogno di spalle comiche, nella sua saga il professor Occultis e il ragazzo Roddy erano come Peppino de Filippo e Mario Carotenuto, Pietro De Vico e Mario Castellani. Era così anche per Capitan Miki, infallibile militare sedicenne, così perfettino da prenderlo a sberle, che beveva limonata e aveva come spalle comiche gli ubriaconi Doppio Rhum e Salasso. Già, gli eroi non bevevano in quei fumetti. Una limonata, una camomilla (chi la beveva, al saloon, Cocco Bill o Lucky Luke?). Per noi ragazzi sardi, circondati da bevitori formidabili, da fieri prosciugatori di cantine, era una lettura diseducativa e frustrante. Venivamo su astemi e, al debutto in società (al bar, all’osteria), di fronte alla nostra riluttanza, gli adulti ci sfottevano: “Ite buffas, pastas?”. Che cosa bevi, ragazzo, pasticcini?
Gli eroi non bevevano e non imprecavano. Era una pioggerellina sottile di “poffarbacco”, “acciderba”, “accipicchiolina”, “perdindirindina”. Blek Macigno, al massimo, si concedeva un “Corna d’alce!”. Era un cattivo esempio. Per i preti l’espressione era comunque troppo forte, monsignor Masia che era il confessore di Cossiga se ti sentiva ti tirava le orecchie o ti allungava un pizzicotto, gli altri ti guardavano come se fossi scemo.

Da noi si imprecava e si dicevano sconcezze in rima, persino i baciapile tiravano giù moccoli, restò famosa l’intemerata che un devoto non troppo compunto – era portatore della statua di non so più quale santo durante le processioni – fece alla moglie: “Cumenti ti l’aggiu a dì, Maria, manda li pizzinni a lu catechismu, porca M…”. Come te lo devo dire, Maria? Manda i bambini al catechismo, porca M… E noi, come Blek Macigno: “Giusto, perbaccolina”. Un’occhiata di commiserazione e: “Marì, chisthi pizzinni so’ mancanti”, Maria, questi ragazzi sono scemi.
Niente alcool, niente bestemmie, nessuna scorpacciata di ultraviolenza. Niente, insomma, che si avvicinasse non dico ad Arancia meccanica, ma almeno a Tex. Sganassoni, qualche pedata, quasi niente sangue. Le morti? Rare, in dissolvenza o fuori scena, appannaggio dei libri di lettura.

Bud Spencer e Terence Hill erano dietro l’angolo. E per la prima scena pulp dovetti attendere le superiori, quando il professore di greco, traducendo all’impronta l’ Anabasi, intonò: “Ed arrivò l’ambasciatore dei greci con le budella in mano e disse…”
“Oggi frattaglie” completò la versione un mio compagno di banco, impassibile. Facendosi espellere fra gli ululati di noi bestie nutrite a Blek e Capitan Miki.
Sentimentalmente, poi, gli eroi di EsseGesse erano macchine celibi: non una donna nei dintorni, qualche giovincella incontrata in giro alla quale il rude trapper dà del lei e dice prego signora (a proposito, questi trapper: mai visti a scuoiare neppure un coniglio, a tirare il collo neppure a una gallina: tutti lì a preparare torte, a conservare prosciutti come massaie). Soltanto il più tardo degli eroi del trio torinese, il Comandante Mark, negli anni ’60 avrà un’eterna fidanzata, Betty, che al confronto Paperina era un’anticonformista. C’erano, le donne, ma soltanto per insidiare le spalle comiche: Occultis, Salasso, Mister Bluff circuiti da ostesse, mercantesse, matrone pingui e non molto invitanti le cui proposte di matrimonio respingevano tra l’impaurito e lo schifato, quasi sempre dandosela a gambe. Non che loro fossero belli anzi, siamo sinceri, questi aiutanti dell’eroe erano grossi & grassi, panciuti, pelati e/o strapelati, ridicoli o vanesi, non di rado male in arnese.
Niente nostalgia, corna d’alce! Con il loro misto di maschilismo da struscio in piazza e di perbenismo da recita parrocchiale, quei fumetti erano l’apprendistato del perfetto democristiano. Come i libri di lettura, quando non funzionavano da medicina omeopatica. Una sola cosa ho imparato da Blek Macigno: che i soldati inglesi sono “marmittoni”. E che non ci si poteva aspettare nessun fremito erotico da quelle storie lì. Così a metà anni ’60, too late for De Sade and too young for Bertolucci, ho saltato a pie’ pari Diabolik (troppo scicchettino con Eva Kant e l’ispettore Ginko) per sostituire Blek Macigno con Kriminal e Satanik, mix furbetti di noir, horror e (modeste dosi di) sesso creati dalla premiata coppia Magnus & Bunker. Ma questa è un’altra storia.

(Visited 1 times, 1 visits today)