Adrien Titieni e Maria-Victoria Dragus sono i convincenti protagonisti di “Un padre, una figlia”, racconto morale con venature di thriller e commedia sulla Romania d’oggi e i compromessi necessari nella realtà post-comunista. Dove si vive meglio, ma non si sfugge alle insidie del gioco dei potenti
Torna Cristian Mengiu, Palma d’oro a Cannes nel 2007 grazie a 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, film terribile e molto convincente sugli aborti clandestini durante il regime di Ceausescu, e in Un padre, una figlia disegna un apologo familiare drammatico e con una sua suspense, sui temi della aspirazioni paterne e della responsabilità verso il successo dei propri figli, della violenza quotidiana, del caso e dei compromessi con il potere.
Con uno slogan, si potrebbe dire che se non ci sono più i loschi figuri all’ombra del Partito unico di un tempo, come quel medico-mammano, non è che chi oggi la Romania sia popolata di gentlemen, men che meno nei pressi di chi tiene in mano i fili della società, in politica e negli affari. Pensando questo, deluso come Mengiu dai modesti traguardi sociali ottenuti dalla de-comunistizzazione nel suo paese, Romeo Aldea, stimato medico di un paesino della Transilvania, spinge la figlia Eliza verso gli studi all’estero. Superato l’esame di ammissione (con borsa di studio) a un’università inglese dove frequenterà la facoltà di psicologia, la ragazza deve soltanto ottenere la maturità in patria, impresa piuttosto facile per lei, allieva modello. Ma la mattina della prima prova scritta, viene aggredita in un cantiere sulla strada della scuola. E questo traumatico accadimento rischia seriamente di compromettere la sua stabilità psicologica e la decisiva prova.
Così Un padre, una figlia, partito come malinconico (anche se a tratti anche ironico) affresco di una famiglia disunita, dove marito e moglie stanno ancora insieme, tradendosi senza remore, solo per dare un futuro alla loro figlia, in un cittadina deprimente dove vale solo la legge dell’arrivismo e la quotidianità può essere a tratti pericolosa, si trasforma in un racconto morale su cosa può essere disposto a fare un genitore per sostenere la persona che gli è più cara, aiutandola a raggiungere gli obiettivi che forse lui nella vita ha fallito. Perché Romeo, per consentire a Eliza di non perdere la possibilità di sostenere il suo esame deve chiedere aiuto, contro ogni suo principio morale, a un pezzo grosso che disprezza. E da lì scendere la china dell’ambiguità morale che gli riserverà una buona dosa di disprezzo per se stesso. Nonostante stia facendo tutto questo per la migliore delle cause, il futuro di sua figlia.
Mengiu, che di figli ne ha due, di 11 e 6 anni, non nega che questi problemi se li è già posti, anche se forse per lui è ancora presto per domandarsi se cercare indigeribili “favori”. Del suo film, che gli ha regalato a Cannes il Gran Premio alla migliore regia, parla come di un ritratto attuale e veritiero della Romania, in cui come sempre si pone per il protagonista il tema della scelta, dell’agire secondo principi consolidati che spesso si scontrano però con l’utilità personale del momento. Il suo però non vuol essere un lavoro troppo serioso, perché come per tanti registi di valore si pone in primo luogo l’obiettivo di interessare attivamente il pubblico. Non una lezione civica, piuttosto un film d’azione, psicologica e oltre, con una vena di commedia perfino, sorretto da Adrien Titieni, ottimo protagonista, e dalla giovane Maria-Victoria Dragus, che tiene il duetto con convincente fragilità.
Un padre, una figlia, di Cristian Mengiu, con Vlad Ivanov, Maria-Victoria Dragus, Ioachim Ciobanu, Adrian Titieni