Peter Stein torna alle origini e alla Scala dà della celebre opera mozartiana una lettura si può dire calligrafica ripristinando i dialoghi completi. Non mi interessa modernizzare – chiosa il regista – ll mondo di Mozart e Schikaneder a me basta e avanza. Rivoluzionario
Ritornare alla fedeltà testuale, alla spontaneità e alla semplicità del gesto teatrale non è certo una sfida da poco, soprattutto in un’epoca in cui la complessità, la riflessione registica fine a se stessa e le forzature contemporanee sembrano dominare incontrastate mietendo vittime al di là e al di qua dei palcoscenici operistici. La sera del 2 settembre, per la ripresa della stagione scaligera dopo la pausa estiva, qualcosa però si è mosso: qualcuno è riuscito ad interrompere questa silenziosa (ma spesso applaudita) strage mettendo in scena un Flauto Magico rivoluzionario.
Questo qualcuno risponde al nome di Peter Stein, berlinese classe 1937, titano del teatro contemporaneo europeo, chiamato dal massimo teatro milanese per dare inizio ad un progetto totalmente dedicato all’Accademia della Scala e dare così l’opportunità ai suoi giovani allievi di mettersi alla prova con grandi opere, grandi registi e altrettanto grandi direttori.
Le intenzioni di Stein erano chiare fin dall’inizio. «Non mi interessa modernizzare. Oggi i registi fanno davvero di tutto… Io no. Il mondo di Mozart e Schikaneder a me basta e avanza», aveva detto senza molti giri di parole al Corriere della Sera, confessando che per la prima volta in Italia si sarebbe messo in scena il capolavoro mozartiano con tutti i dialoghi completi in tedesco, spesso tagliati in paesi non germanofoni. Nessuno però poteva immaginare quale forma scenica avrebbero preso queste parole all’aprirsi del sipario del Piermarini.
Peter Stein è riuscito a rompere la ormai nota tradizione iconografica del Flauto Magico allontanandosi dalle seriose e teutoniche regie che si obbligavano a cercare in questo capolavoro la misteriosa rivelazione teologica, il geniale anticipatore del romanticismo tedesco o, in mancanza di idee originali, il trionfo dell’illuminismo massonico, finendo per mettere in secondo piano la storia contenuta nell’opera.
Nella messa in scena del regista tedesco tutto ciò non sparisce ma cambia forma avvolto in una dimensione fiabesca, spesso leggera e stereotipata ma per nulla infantile, dove ogni oggetto, ogni gesto e ogni personaggio ritrova la sua essenza più autentica, priva di arzigogoli ed elucubrazioni filosofiche o psicanalitiche, lontana dalla realtà (e non potrebbe essere diversamente, trattandosi del Flauto Magico) ma forse vicino, come ha detto lo stesso Peter Stein con un certo azzardo filologico, alla prima rappresentazione viennese del 1791 al Theater auf der Wieden.
Sulla scena tutto appare stilizzato ed essenziale: basta e avanza quello, non occorre altro per raccontare le vicende di Die Zauberflöte. E così il tempio del primo atto ci riporta a quelle genuine rappresentazioni che si era soliti fare a scuola durante i primi mesi di storia dell’arte, alle prese con l’architettura greca; la scala, circondata da un mare di stelle, da cui scende prepotente e luminosa l’astrifiammante Regina della Notte, ci richiama alla memoria un universo quasi disneyano straordinariamente banale ed efficace nella sua immediatezza iconografica; e le piramidi, che più piramidi non possono essere, dominano la scena illuminate dal sole della ragione e dal giallo delle dune del deserto e circondate da sottili alberi e dai bianchi turbanti dei concelebranti di Sarastro, trasportandoci in un Egitto razionale e massonico dove però non muore mai il suo sapore magico.
Non dissimile è stata la riflessione drammaturgica di Peter Stein sui personaggi abbozzati nel più profondo rispetto delle loro diverse, anzi diversissime identità drammaturgiche che sono emerse con straordinaria spontaneità. Una riflessione dunque vincente che è riuscita a mantenere inalterata la tensione fiabesca e, allo stesso tempo, a dare giusta voce alle infinite componenti che animano questo capolavoro della coppia Mozart – Schikaneder.
Meno convincente è stata invece l’interpretazione sul piano musicale: i cantanti, pompati – forse troppo – sul piano della recitazione, hanno faticato a rendere giustizia alla vocalità dei principali personaggi: il Tamino del ventottenne Martin Piskorski è apparso spesso affaticato non riuscendo sempre a calibrare le energie del suo “strumento”, complice anche una tecnica ancora troppo acerba. Come acerbo è stato il Sarastro di Martin Summer, la cui voce non è riuscita a dare forma e colore a quella profonda e morbida musicalità che caratterizza il sommo sacerdote di Iside e Osiride. Non del tutto convincente è stata la performance di Yasmin Özkan, Regina della Notte, ancora troppo fragile per affrontare con sicurezza un ruolo così arduo. Concludo con Pamina, interpretata dalla giovane soprano egiziana Fatma Said, e col Papageno di Till von Orlowsky, che hanno saputo unire, con grande intelligenza e freschezza, sensibilità musicale e una presenza scenica buona, se non ottima, come nel caso dell’uccellatore.
Altrettanto sensibile e intelligente è stato Ádám Fischer a capo della giovane Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala. Il direttore ungherese (Budapest, 1949) è riuscito a dare, assieme a uno splendido coro guidato da Alberto Malazzi, il giusto sostegno ai cantanti, accelerando laddove la tecnica di alcuni cantanti e strumentisti non permetteva tempi più distesi e ammorbidendo il ritmo nei punti in cui invece la sapienza di altri lo consentiva. Il suono complessivo non è stato perfetto ma comunque attento e rispettoso dello spartito, della scena e soprattutto di quella bellezza e spontaneità che lasciano senza argomenti i “colti” e le anime complesse, quelle stesse anime a cui Eugenio Montale sembrava aver precluso, con irriverente spontaneità, la comprensione di questo difficile capolavoro.