Ricordo di Edward Albee, papà di «Virginia Woolf»

In Teatro

Edward Albee se n’è andato, un po’ in sordina. È stato uno dei padri del teatro americano contemporaneo. Noi lo ricordiamo così…

Ci sono grandi personaggi che se ne vanno senza aver il giusto saluto, il doveroso compianto, la tristezza di un addio, la riconoscenza per ciò che ci hanno regalato nel corso del tempo teatrale. Fra questi Edward Albee, morto sabato 17 settembre e ricordato sbrigativamente il giorno dopo su pochi quotidiani. Eppure Albee, che aveva 88 anni ed era nato a Washington da una ricca coppia proprietaria di sale teatrali (al destino non si sfugge) aveva scritto la commedia americana più famosa di tutto il 900 (dopo il “Commesso” di Miller), Chi ha paura di Virginia Woolf?.

È stato e sarà ancora il testo in cui si coagulano le ripetitive ansie della prigione coniugale (ma pare che in origine fosse stata scritta per una coppia gay), viene dalle solitudini nordiche di Strindberg e passa per le querelle a coppie di Jasmine Reza (Carnage). Ma che sia un dramma di grande verità esistenziale, che sia un gioco al massacro bagnato da molto whisky, che sia un banco di prova generazionale che non fa sconti a nessuno, mi sembra chiaro. Il suo successo, dal debutto a Broadway nel 1962, è stato da subito clamoroso ovunque, perché Albee colpiva al cuore i valori sacri familiari della società non solo americana, come Miller e O’Neill, come Mamet e Shepard più avanti, ma nello stesso tempo egli conosceva bene i comandamenti dello spettacolo e come tenere in gabbia lo spettatore in un continuo processo di identificazione. Non a caso le sue prime opere sono proprio il Sogno americano del ’61 dove due genitori eliminano un figlio, La morte di Bessie Smith e Zoo story storia di una totale solitudine che si svolge in una panchina beckettiana (e non a caso, essendo un atto unico, andò in scena in coppia con L’ultimo nastro di Krapp). Ma torniamo a Virginia Woolf (il titolo fa il verso al song dei tre porcellini: chi ha paura del lupo cattivo?) che debuttò il 13 ottobre ’62 (foto) con la regìa di Alan Schneider e nel cast Uta Hagen, Arthur Hill, George Grizzard e Melinda Dillon.

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In Italia, questo testo esplosivo che tra l’altro metteva alla gogna il mondo universitario, lo importò subito nel ‘63 e ne fece un grande spettacolo Franco Zeffirelli con attori come Sarah Ferrati, Enrico Maria Salerno, Umberto Orsini e Manuela Andrei. Essendo una amara commedia da ring di coppia, con la fantastica trovata dell’invenzione di un figlio che non esiste, verrà ripresa molte volte da noi sempre con interpreti magistrali: si ricordano le edizioni con la Proclemer e Ferzetti, con la Melato e Lavia e con la Marigliano e Cirillo nell’ultima stagione. Ma è stato il bellissimo e fedelissimo film di Mike Nichols con Liz e Burton, mai così identificabili, a dare l’imprimatur internazionale a Albee, che poi continuerà una carriera ma senza più ritrovare l’estro di quest’opera che ha segnato i palcoscenici mondiali, sferzando la middle class.

A parte qualche riduzione curiosa (La ballata del caffè triste di McCullers, Malcolm di Purdy) e alcuni titoli che non ebbero vasta fortuna (Piccola Alice e Tre donne alte), l’altra sua commedia, sempre una conversation pièce, che ebbe risonanza fu Un equilibrio delicato. Un’altra storia di solitudini incrociate, nella vasta provincia americana, che in Italia fu recitata magnificamente, sempre diretta da Zeffirelli, dalla Morelli, da Stoppa, dalla Ferrati e che fu anche un introvabile film di Tony Richardson del 1973 con la grandissima Katharine Hepburn, accanto a Paul Scofield, Lee Remick e Joseph Cotten, ancora sulla giostra delle nevrosi personali e collettive chiamate familiari.

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