Umberto Orsini, l’Ivan Karamazov del vecchio sceneggiato Rai, torna al Grande Inquisitore di Dostoevskji e parla dell’uomo che crocifiggerebbe oggi Cristo
Memore di quello sceneggiato andato in onda per Rai TV negli anni Sessanta, che catalizzò l’attenzione di più di venti milioni di spettatori per diverse settimane, Umberto Orsini ripropone all’Elfo una riedizione contemporanea de I fratelli Karamazov di Dostoevskij (uscito nel 1879), assieme a Leonardo Capuano per la regia di Pietro Babina, cogliendo nell’essenzialità la poetica del romanziere, ispirandosi in particolare al capitolo de Il grande inquisitore, il romanzo che Ivan vorrebbe scrivere e racconta al fratello Alioscia.
Spiega Orsini: «Abbiamo immaginato un figlio-demone che cerca di tentare il vecchio Ivan Faust con la possibilità di dire quelle parole del grande Inquisitore oggi, davanti la platea di TED Conference, un luogo non virtuale dove in diciotto minuti oggi uno può tentare di dire qualcosa che vale la pena di essere raccontato». In questa dimensione familiare e allo stesso tempo estranea allo spettatore, si apre il mondo interiore di Ivan Karamazov: un non-luogo che potrebbe essere un mausoleo, un obitorio, la stanza di un ospedale, una camera avveniristica di una realtà spaziotemporale lontana, un bunker sotterraneo prebellico, rischiarato dall’alto da cangianti luci artificiali e delimitato soltanto da un tavolo, una porta ed uno specchio.
A scandire il tempo sono i beep di un elettrocardiogramma, accompagnati dai potenti battiti cardiaci di un cuore affannato. A disegnare l’ambiente una grande scritta al neon con la parola FEDE, che si illumina ad intermittenza giocando con i rumori cupi, le luci fredde, i flash ossessivi e le ombre colorate che delimitano spazi emotivi. È il luogo dell’incubo, in cui riposano i quesiti più nascosti urlati nel subconscio, in cui i pensieri che custodiamo sigillati per evitare di ascoltarli, vengono a galla prepotentemente.
Ivan si fronteggia con la sua nemesi, che lo forza ad interrogarsi sul destino della libertà umana, sulla fede, sul peccato, sulle tentazioni, sul potere della logica e sui misteri della vita. Quest’uomo è soggiogato, schernito, afflitto, combattuto da sé stesso, insidiato da un demone che lo costringe a fare sua la tesi del Grande Inquisitore: la libertà umana offerta da Cristo è pagata al caro prezzo della disumanità, non accolta dall’uomo, incapace di servirsene, che di essa fa la sua condanna.
Per l’Inquisitore non esiste soluzione positiva al problema, il male è nel cuore dell’uomo e l’irreparabile destino è quello di soccombere, dietro ad una parete nera che tutto copre in modo indistinto. È il suo messaggio, ateo, razionale, coerente e scettico a trasformarsi in quei diciotto minuti di TED Conference dove democraticamente si scaglia in condanne disperate, sostituendo al messaggio di Cristo il potere, il miracolo e l’autorità, e assicurando una vita calma e sazia, dove per la missione di libertà e fede di Cristo non c’è posto.
Lo spettacolo fa propri i canoni dei linguaggi della contemporaneità, prioettando lo spettatore in una dimensione che gli appartiene e traslando invece lo spazio delle parole di Dostoevskij. «Il conflitto che ne scaturisce – come afferma Babina – è esattamente il conflitto su cui si fonda il testo», capace ancora oggi di dare vita ad uno spettacolo in grado di costringerci ad ascoltare quelle domande irrisolte ed ossessive che forgiano, come tante altre, lo spirito umano.