Eccomi è senz’altro un libro grande, ambizioso, difficile. E probabilmente non poteva essere altrimenti, per un’opera che risponde al desiderio – covato dall’autore per ben 11 anni – di «scrivere un romanzo su tutto».
Quando ho letto la prima delle seimila interviste che Jonathan Safran Foer ha rilasciato per promuovere il suo nuovo libro, ho pensato: Eccomi. Letteralmente. Quale occasione migliore per avvicinarmi finalmente all’autore di Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino?
Così mi sono lanciata nell’avventura di queste quasi settecento pagine, senza tener conto del tremendo rischio che avrei corso, poi, nel provare a dire la mia sul romanzo del momento.
Com’è andata? Per alcuni aspetti molto bene. Eccomi è senz’altro un libro grande, ambizioso, difficile. E probabilmente non poteva essere altrimenti, per un’opera che risponde al desiderio – covato dall’autore per ben 11 anni – di «scrivere un romanzo su tutto».
Si comincia con la storia di una famiglia. Julia e Jacob Bloch, quarant’anni, tre figli, due lavori intellettuali, una religione – l’ebraismo – tenuta attentamente al suo posto, tra tradizione, noncuranza e sensi di colpa. Vite borghesi all’inseguimento della perfezione. In tanti giorni di storia, in mezzo ai buoni sentimenti e alle buone intenzioni, si sono persi, e non riescono a ritrovarsi.
Così tanti giorni di vita in comune. Così tante esperienze. Come avevano fatto a passare gli ultimi sedici anni a disimpararsi a vicenda? Come aveva fatto la somma di tutta la presenza a tradursi in assenza? (p.114)
Eccomi racconta la fine del loro matrimonio. La lacerante presa di coscienza della rottura di qualcosa, solo a causa dei continui, impercettibili smottamenti della vita di tutti i giorni. In questo Foer è davvero maestro. Le sue pagine – soprattutto le prime cento – costruiscono una meravigliosa rete di piccoli aneddoti, riflessioni, dialoghi tra i due sposi, che ripercorrono e riesaminano in continuazione la loro storia in cerca di errori, ripensamenti, trappole. Di più, restituiscono con disperante esattezza il lavorio incessante delle menti frustrate dei protagonisti. La vita che gira intorno a se stessa, incapace di abbattere il muro dell’intelligenza.
Di quella, i protagonisti ne hanno fin troppa. Tutto il romanzo è un fiorire di osservazioni acutissime, in bocca o in mente ad adulti e bambini. Ai giovani Bloch, in particolare, l’autore attribuisce sensibilità e consapevolezza e parole davvero fuori dall’ordinario. In parte, Foer ne fa una questione di religione:
Alcune religioni puntano sulla pace interiore, altre sul rifiuto del peccato, altre sulla lode. L’ebraismo punta sull’intelligenza […] Gli ebrei costituiscono lo 0,2 per cento della popolazione mondiale ma hanno ricevuto il 22 per cento di tutti i premi Nobel […] Ma se ci fossero dei premi Nobel per la soddisfazione, per il senso di sicurezza o per la capacità di lasciar andare, quel 22 per cento […] avrebbe bisogno di un paracadute. (p. 645)
In parte, probabilmente i ragazzi sono la manifestazione delle nevrosi dei genitori, il continuo monito che li richiama al loro fallimento e alla loro infelicità. Ora della fine, però, tutte queste manifestazioni di acutezza e comprensione finissima delle situazioni risultano poco credibili.
Riassumendo: genitorialità, crisi della borghesia, infanzia, adolescenza, matrimonio, decadimento, tradimento, divorzio. Già così, ci sarebbe parecchia carne al fuoco.
Ma Foer non si ferma, e tenta di costruire un’opera-mondo, per cui il fallimento del matrimonio dei Bloch e la crisi familiare che ne deriva vengono inseriti nel delirante scenario di una catastrofe politico/ambientale che porterà niente meno che alla distruzione di Israele. Ecco allora che nella storia entrano con prepotenza anche la Bibbia, l’ebraismo, la guerra, la morte.
Nel sistema costruito dall’autore, ogni elemento rimanda a un altro; sulla soglia di ogni evento, tra le battute di ogni dialogo, i personaggi costruiscono analogie, che aprono voragini praticamente su qualsiasi tema. E più si procede nella lettura, più il sistema di rimandi si infittisce, trasformandosi in una ragnatela infinita di riflessioni e digressioni… Nel momento drammatico in cui Julia sta per rinfacciargli il suo tradimento, Jacob non pensa a lei, ma a quando all’università è stato accusato di plagio. Nessun personaggio, per quasi tutta la durata del romanzo, sa dire Eccomi, ed essere perfettamente presente a se stesso e agli altri. Tutti sono invece invischiati nella rete di ciò che vorrebbero ma non possono, avrebbero dovuto ma non hanno abbastanza voluto. E quindi vagano, avanti e indietro nel tempo e nello spazio, prigionieri delle loro menti.
Perfino i titoli dei capitoli si ripetono, si rincorrono, rispondono a domande interne al testo. Si dirà che questo è il modo che Foer sceglie per restituire la complessità e la fatica della vita. In Eccomi, come nella realtà, le relazioni e i sentimenti sono inscindibili dal contesto politico, sociale e religioso in cui sono calati. Ma il risultato in questo caso è un groviglio a cui è impossibile star dietro.
Ad amplificare la frustrazione del lettore, intervengono poi le scelte stilistiche adottate da Foer. Anche sotto questo profilo, alcune soluzioni sono senz’altro molto efficaci: trovo perfetto, per esempio, il modo in cui gli sms e le chat si insinuano nel tessuto dei pensieri e delle azioni quotidiani. Riuscite le discussioni familiari, il brusio incessante, la polemica e i battibecchi. Più faticosi invece i dialoghi faccia a faccia, spesso troppo lunghi e pretenziosi. Anche in questo caso, il desiderio dell’autore di restituire i meccanismi e le reticenze che governano le relazioni penalizza troppo spesso la leggibilità.
In una parola, il desiderio di scrivere qualcosa di grande, qualcosa di intelligente e definitivo (il famoso libro su tutto nelle intenzioni dell’autore) è fin troppo evidente: ogni parola sembra dover trovare un posto nel sistema complessivo dell’opera. In Eccomi, però, non tutto è alla stessa altezza, o meglio alla stessa profondità; e così, nel tentativo di collegare e spiegare tutto, le parti davvero riuscite e toccanti dell’opera si perdono tra dialoghi convenzionali, sentenziosi aneddoti e digressioni superflue. Peccato