Ricordo di Dario Fo

In Teatro

Ci saluta un genio della scena, innovatore e trasformatore in grado di reinventare linguaggi e affascinare il mondo intero. Noi lo ricordiamo così…

Alla fine non ce l’ha fatta. La partita a ramino con la morte su cui Dario Fo, 90enne con l’ansia creativa di un ragazzo, ha scherzato fino all’ultimo all’ospedale Sacco di Milano, l’ha persa lui. Sipario. Non ha pescato il jolly. Eppure nella sua vita jolly ne ha pescati tanti, confessava spesso anche la sua fortuna, accoppiata a un talento che oggi definire trasversale è poco: scrittore, attore, pittore, scenografo, polemista, pericolo per le sicurezze borghesi. Tre anni dopo la morte della Rame, anche Dario, vincitore del Nobel per la letteratura nel ’97 per aver difeso la causa dei deboli, ha raggiunto la sua adorata Franca, moglie e partner, coautrice di vita, che ogni tanto riconosceva nello spuntar d’una rosa fuori stagione nel cortile della sua grande casa factory in fondo a corso di Porta Romana a Milano.

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Difficile dire cosa Fo non sia stato nella nostra cultura e spettacolo del dopoguerra, segnandolo profondamente e a livello internazionale. Era poi una mina sempre innescata nel difendere le cause civili, ultima quella grillina dei 5 stelle che non ha fatto in tempo a vedere come andrà a finire. Fo, come dicono sempre e come diceva egli stesso, è stato un grande giullare della società, un attore tragicomico che si scriveva testi su misura, a volte di taglio perfetto come il “Mistero buffo”, in cui usò il famoso grammelot (lui e Testori hanno reinventato una lingua), come il Cristoforo Colombo, attaccato per due volte nel corso del tempo; altre volte imbastati ma con le cuciture non perfette e qualche eccesso. Amava tutto lo spettacolo, da cui era riamato, a parte il cinema che non era il suo medium, anche se era stato protagonista dello “Svitato” di Lizzani prodotto da Leo Wachter, poi era apparso in due titoli di Antonio Pietrangeli e infine anche in un film di Benni.

Ma forse il contributo segreto maggiore fu l’aver partecipato con l’amico scultore Alik Cavaliere, entrambi giovanissimi, agli effetti speciali artigianali dell’ultima scena degli spazzini che volano in Piazza del Duomo in “Miracolo a Milano” di De Sica. Il respiro, la pausa, la smorfia erano tutti per il teatro, che amava in ogni angolo e stile: era un Nobel ma aveva cominciato in passerella nelle riviste estive con le sorelle Nava, Tommei e Pina Renzi, nomi dispersi nella memoria. Alla radio, primo passo di popolarità per molti fra cui Sordi e la Valeri, aveva lanciato il personaggio del “poer nano”. Dal 53 in poi forma un Trio con Durano e Parenti, tre allampanati, surreali cabarettisti in tuta da mimi, anticipo del teatro dell’assurdo, che Grassi e Strehler accolsero a braccia aperte nelle estati milanesi al Piccolo in via Rovello: furono successi memorabili, da Dito nell’occhio a Sani da legare a Ladri, manichini e donne nude fino a Comica finale al Gerolamo. Intanto aveva sposato una bellissima bionda Franca Rame anche lei soubrette di una nota girovaga famiglia di teatranti (in passerella vestita solo con tre puntini era mozzafiato). E si trasferirono per poco trasferito a Roma, vicini di casa della Bergman e Rossellini allora gran peccatori, nacque il figlio Jacopo e poi ritorno a Milano, sede fissa per sempre anche se col teatro si girava l’Italia in lungo e in largo, teatri e officine, fabbriche e club, circoli e sale di fortuna. Qui inizia il lungo sodalizio della “ditta” Fo-Rame che proseguì tutta la vita (e il lavoro continua nel presente storico della scena).

Per anni Fo aveva il compito di inaugurare la stagione teatrale all’Odeon agli inizi di settembre con farse grottesche come Gli arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, Settimo ruba un po’ meno (c’era la giovane Melato), che sembrava un titolo scherzoso, paradossale e invece era solo profetico e in anticipo. Amatissima coppia, che fino alla fine degli anni 70 fu ospite di teatri ufficiali prima di emigrare in luoghi più vivi e scomodi, occupando e resuscitando la bellissima Palazzina Liberty a Milano e al capannone di via Colletta che ospitava il Collettivo Teatrale la Comune. Erano luoghi dove si entrava solo con la tessera e spesso osservati dalla polizia. L’ultimo spettacolo tra i velluti rossi del Manzoni era stato nel 69, epoca di rivoluzioni e contestazioni, La signora è da buttare, dove la signora era l’America del Viet e degli hippies, un paese Fo e la Rame, nonostante i loro testi vi fossero in scena, non potevano raggiungere in quanto pericolosi sovversivi senza visto.

La censura ha sempre tenuto di mira il lavoro di Fo e temuto la sua polemica personalità, che però si adattava anche a girare Caroselli, vedi quelli storici per l’Agip: fin da quando alla radio diceva surreali filastrocche, anche allora lo stopparono alla 18ma puntata; poi il memorabile scandalo di quella Canzonissima del 63, anni di primo centro sinistra, che osava parlare di operai perfino nella storica coro sigla musicale firmata da Fiorenzo Carpi. E Fo scriveva sketch sugli incidenti sul lavoro, in epoca in cui non si poteva pronunciare la parola “membro” in tv: quindi basta, stop, chiusura, lite – va detto che, interpellati, né Chiari né Bramieri accettarono di sostituirli – ed esilio dalla Rai per 15 anni.

 

 

Fino al ’77 quando per la prima volta il Mistero buffo, ormai classico nel mondo, conquistò il teleschermo. E da allora i loro volti divennero noti ai telespettatori e una sera coraggiosamente la Franca, che poi interpreterà anche i lai della Madonna, raccontò anche quel terribile momento in cui era stata sequestrata a violentata da un gruppo di fascisti in un pulmino: ne ebbe riconoscenza e affetto, come quando, in un impeto femminista, divorziò a parole dal marito durante una diretta domenicale. Ma era come casa Vianello: lite, poi tornò tutto in ordine, quei due si erano indispensabili in ogni senso. La carriera di Fo continua con moltissimi spettacoli (e moltissime le scenografie sempre disegnate da lui, quadri anche spesso in mostra), col ritorno nei teatri centrali, con una rievocazione irresistibile di Colombo.

Intanto la memorabile Morte accidentale di un anarchico ispirata a Pinelli e ai fattacci di Piazza Fontana, andata in scena quasi clandestinamente, era diventata un suo classico e passò all’estero e in un’altra bella edizione dell’Elfo. Un teatro che, magari a volte non curatissimo, fu sempre direttamente proporzionale ai problemi del paese e al disagio della gente, pur parlando il linguaggio a volte dozzinale della farsa: famosi i monologhi della Rame intitolati Tutta casa, letto e Chiesa e Non si paga non si paga sugli espropri proletari. E ci furono anche il Fanfani rapito, con ovvia ridicola truccatura, il Diavolo con le zinne, Pum pum chi è? La Polizia,  la Storia della tigre  e nel ’79 alla Scala Fo mise in scena L’histoire du soldat di Stravinski. Intervallava a volte con la musica di Rossini e con i classici di Moliere alla Comedie Francause e anche con una “Opera dello sghignazzo” ispirata a quella da tre soldi di Brecht e Weill. Un teatro politico che continuava scorrendo nel tempo e nei cambiamenti epocali che Fo seguiva da vicino: la gente gli chiedeva sempre Mistero buffo, ma Felice Cappa registrò per la tv un ciclo delle sue cose migliori e di sicuro Rai5 ce le mostrerà, anche esibizioni recentissime. Anche dopo un ictus che lo limitò non poco nella memoria, l’attore ebbe la forza e la costanza di continuare a salire sul palco, magari con la moglie che badava ai vuoti di memoria. La sua personale factory di ispirazione continuava senza soste, anzi con incipiente furore: negli ultimi anni scrisse moltissimi libri, dipinse, insegnò, conversò, votò, non perse mai il polso della vita vera e quando morì la moglie allestì una bella cerimonia pubblica sul sagrato del teatro Strehler. Allevò complici e fans, da Jannacci a Paolo Rossi, in tv fece storiche apparizioni con Gaber e Chiambretti, ma Fo era proprio un pezzo unico, era lui quel jolly rimasto nel mazzo: dovremo fare senza giullari e così tutto ciò che si vede da ogni finestra del mondo sarà più disadorno e triste, privo di ogni sghignazzo.

 

 

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