Il giovane Falco, dopo l’UBU e le felici esperienze ronconiane, rilegge Pirandello. O meglio: se lo spalma addosso. Con risultati sorprendenti…
Chi scrive ricorda benissimo la prima volta che ha incontrato Fabrizio Falco. E non ne va troppo fiero.
Il giovane attore di origini messinesi ma cresciuto a Palermo si trovava a Catania (tris Sicilia!), reduce da una congiuntura astrale e professionale di rara fortuna: aveva appena vinto il premio Mastroianni come miglior rivelazione al Festival di Venezia per il tandem Bella Addormentata di Marco Bellocchio/È stato il figlio di Daniele Ciprì. Ebbene: nella sala in cui si proiettava la pellicola di Ciprì chi scrive, che solo la sera prima aveva visto il film di Bellocchio, si è avvicinato quatto quatto all’attorgiovane. E, sbucandogli dietro le spalle, gli ha detto: Sei la cosa più riuscita del film di Bellocchio. Un rapido sussulto da parte del neo-divo dallo sguardo timido, che probabilmente non ha apprezzato quello che si configurava forse come il peggior complimento della storia dei complimenti fatti male. Perché dietro quelle parole si nascondeva in realtà altro, ovvero: Il film è brutto, ma in fondo tu te la sei cavata. Di solito gli attori, che non sono sempre le persone più sagge a questo mondo (e adesso fioccano le querele, i contro-articoli, le polemiche del fine settimana), ci cascano con tutte le scarpe. Falco no. E io (basta con la terza persona) capii subito di avere a che fare con uno dei pochi attori “riusciti” sulla piazza che fossero anche intelligenti.
Negli anni il giovanissimo Falco, a voler dire, non si è mai risparmiato. Lo dimostra la gavetta al cinema coi Taviani in Maraviglioso Boccaccio e Le ultime cose di Irene Dionisio ma, soprattutto, in teatro con Luca Ronconi: il maestro l’ha diretto nel suo Studio sui sei personaggi, nel Panico da Spregelburd, nella Celestina e nell’ormai iconica Lehman Trilogy, dove interpreta il metaforico equilibrista Solomon Paprinskij, in costante rischio di crollo sulle voragini morali e finanziarie di Wall Street. Non solo Ronconi: per l’attore finiscono intanto sul curriculum collaborazioni con Carlo Cecchi e il suo Sogno, con Maurizio Spicuzza (che l’ha diretto in numerose occasioni) e anche con Valerio Binasco (per il quale ha lavorato in Frammenti).
Uno ambizioso, Fabrizio Falco. Una faccia un po’ così, simpatica, di uno che vorresti come amico. Un attore, come si scriveva sopra, di grande intelligenza: un talento nervoso ma mai di maniera, scattante e teso quando serve, lontano anni luce dalle movenze ego-riferite di molti colleghi della sua generazione che abitano le tavole del palcoscenico per tornaconto personale. Non è un caso che si sia aggiudicato un UBU come miglior attore under 35.
Falco no, Falco ama il teatro e lo mette prima di sé: non c’è bisogno di dividere una birra con lui per intuirlo. Non a caso al Franco Parenti (che già conosce per avervi recitato nel delizioso Cock, da Mike Bartlett, lo scorso febbraio) è regista e unico protagonista di Partitura P. – Uno studio su Pirandello. Il titolo rischia di anticipare un’esperienza parziale, ma così non è: quello di Falco nei confronti del genio di Girgenti è un atto sincero, dovuto, iniziato già con lo studio ronconiano sui Personaggi e idealmente maturato dall’artista. Partitura P. è, più che uno spettacolo, una (felice, peraltro) riflessione corporea e cerebrale, una variazione istrionica – nella migliore accezione possibile del termine – su tre novelle firmate da Luigi Pirandello. L’uomo dal fiore in bocca, Una giornata, Il treno ha fischiato: non tre titoli a caso, ma opere di ovvia solidità che Falco modella sulla indiscutibile forza scenica di cui dispone, a partire dal concetto di tempo.
Le tre novelle rivivono infatti nel corpo di Falco scandite su altrettante fasce, tutte riunite dall’indiscusso talento dell’interprete, che lascia scorrere su di sé, in un meccanismo di rara aderenza che unisce mestiere e passione visibile verso il sacro fuoco della recitazione (e altra retorica simile, insomma).
Falco manipola il tempo di Pirandello e quello delle tre novelle, in un gioco beffardo in cui l’ironia è diretta conseguenza – o, meglio, complice potente – del dramma. Un para-universo condensato nelle parole di un monologo torrenziale, di dichiarata emotività, del tutto sincero e intessuto di palesi differenziazioni.
Ecco: Fabrizio Falco, forse, è uno dei pochi che in Italia può ancora permettersi di tirare in ballo Pirandello e uscirne bene. Il suo non è un lavoro presuntuoso, mai; è una ridefinizione che asseconda le geometrie del genio e le rielabora, filtrata con estrema precisione dalle luci di Daniele Ciprì.
L’approccio di Falco è gentile ma irrequieto, umile ma ambizioso, ombroso ma “aperto”: L’uomo dal fiore in bocca, Una giornata e Il treno ha fischiato non si limitano a trovare “nuova vita” ma a conoscere una sperimentazione razionale e parimenti istintiva. È, quello di Falco, un apprezzabile universo di dicotomie che spesso possono apparire ingenue, ma in realtà rivelano quella che è la sua pura, incontestabile onestà intellettuale. Non importa che il suo sia un progetto ambizioso, forse troppo per una figura ancora così fresca d’anagrafe; la sua tirata finale sul Treno ha fischiato è straordinaria. Falco non cede a sperimentazioni presuntuose e autoreferenziali, intricate, complesse. La sua scarnificazione avviene per mezzo della parola: la glorificazione di Belluca avviene con estro e poesia, in un crescendo di sentimenti che il regista-protagonista riesce a calibrare con estremo rigore e grande intensità, fino a portare alle lacrime prima che cali il sipario. Avercene di “studi” così.
(Per le foto si ringraziano Teatro Stabile di Torino e Paper Street)