Il testo di Mark Metoff, già portato con successo al cinema, torna in Italia dopo il fortunato debutto dello scorso anno. Lo spettacolo pecca di ingenuità e non osa più di tanto, ma Mattolini dirige con piglio sicuro e i due protagonisti sono straordinari…
Il testo, scritto nel 1979 da Mark Metoff, è di culto presso il pubblico anglofono. Figli di un dio minore debutta sulla scena nei primi mesi del 1980 al Mark Taper Forum di Los Angeles, seguito da una corsa a Broadway che tanto corsa non è, se non nel termine: 880 performances.
Detta così sembra la storia di un qualsiasi testo di successo, ma per capire meglio bisogna andare oltre: l’opera di Metoff è, sostanzialmente, tra i più celebri drammi a infrangere tabù, stereotipi e compagnia a corredo sull’handicap fisico. In questo caso, quello della sordità.
Metoff la scrisse su misura per l’attrice Phyllis Frelich, anche lei sorda come il personaggio che interpreta: il successo fu immediato, tanto che lo spettacolo si aggiudicò il Tony come miglior titolo dell’anno. E altrettanto fortunata è stato l’adattamento cinematografico, diretto dalla stranamente desaparecida Randa Haines e interpretata dal cavallo di razza William Hurt e da Marlee Matlin, all’epoca debuttante di 21 anni, sordomuta. La Matlin, per il toccante ritratto di Sarah, la non udente che si innamora ricambiata di un insegnante del centro riabilitativo in cui fa le pulizie, avrebbe vinto un Oscar come miglior attrice.
Figli di un dio minore, che nei teatri italiani aveva fatto una breve incursione agli inizi degli anni Ottanta, torna adesso sui palcoscenici italiani (dopo la fortunata tournée dello scorso anno) diretto da Marco Mattolini, e interpretato da Giorgio Lupano (bravissimo, tra gli altri, in Sotto falso nome del 2004 di Roberto Andò) e la torinese Rita Mazza, interprete torinese emigrata a Berlino anche a causa dei pregiudizi dovuti al suo handicap – la sordità, per l’appunto.
Racconto di solitudini, di incomprensioni fisiche e mentali, di una tensione che corre sui corpi, sui gesti e sulle parole, il Figli di un dio minore di Mattolini parte avvantaggiato: il testo di Metoff è sostanzialmente una bomba a orologeria, uno stimolatore impressionante di suggestioni in grado di emozionare in maniera fluida e sentita, senza tutte le sbrodolate retoriche che potrebbero essere offerte da un argomento come quello trattato dal copione.
Maturato da un’esperienza laboratoriale, in coordinamento con l’ISSR, Istituto Statale dei Sordi di Roma, lo spettacolo di Mattolini mette in scena attori udenti e non udenti, senza che ci siano indisponenti differenze di professionismo. Entrambi dividono la scena com’è giusto che sia, senza occhi di pietà o nasi che si storcono: attori veri, che mandano a memoria, che entrano dentro le dinamiche dei personaggi che sono pagati per interpretare. Che poi siano sordi, è un dettaglio, una derivazione testuale, una conseguenza “performativa” vissuta con estrema adeguatezza.
Come adeguato è il lavoro di Mattolini, orgogliosamente “tradizionale” sin dalle prime scene: le luci piovono regolari sull’istituto, sulle cui pareti si compone la scritta in spray Deaf Power, potere ai sordi, leitmotiv della componente pasionaria dell’allestimento.
Mattolini dirige un testo non semplice in maniera ordinata, quasi compilativa, mai sgradevole: la sua regia è sicura, ma forse avrebbe dovuto osare un po’ di più invece che assecondare i suoi protagonisti. L’effetto è rassicurante, drammatico quando deve esser tale e ironico nelle parti brillanti, intenso nella scena madre, doloroso quando serve. Mattolini non vola più di tanto, ma la sua è una scelta precisa: vuole gestire la materia dal basso, senza farsi sfuggire nulla. Non lo si può di certo biasimare se la sua messinscena non è sperimentale, ma fieramente vintage.
Figli di un dio minore non osa, ma tutto questo è voluto: seguendo un meccanismo antico come il mondo, quello che più interessa è colpire un pubblico trasversale piazzandogli di fronte una storia dura di incomprensioni e dolore, in cui la rabbia nel non riuscire a comunicare diventa un atto politico, una dichiarazione di guerra – e di amore malsano, come nel caso dei due protagonisti.
La lettura di Mattolini va rispettata, per l’appunto, in quanto vuole parlare a tutti: teatro importante ma che non strizza l’occhio agli addetti ai lavori. Non a caso gli spettatori vanno in visibilio; e non perché il testo sia retorico o demagogico, anzi. La vita è talmente dura, in Metoff, che non c’è spazio per il lieto fine dichiarato o regalato (sebbene, forse, sulle ultime battute…), ma solo per un disincanto che non riesce ad avere misura, o geometrie ben definite.
Sopra tutto, c’è il silenzio. Come scelta di vita, come conseguenza naturale a un handicap, come cifra stilistica. La protagonista Sara non vuole più parlare, e non c’è logopedista che tenga. Neppure se quest’ultimo diventa suo marito. Figli di un dio minore, sotto una qualche bizzarra lettura sociologica, potrebbe tra cent’anni essere riletto come guerra dei sessi ai tempi dell’handicap. In realtà qui ci sono persone che vogliono parlare e persone che non vogliono farlo. Persone che si vogliono bene e persone che, pur amandosi, non riescono a “incontrarsi”.
Mattolini questo l’ha capito. I suoi due strepitosi protagonisti pure (Lupano, protagonista perfetto, ha imparato il linguaggio dei segni e lo manipola con estrema disinvoltura, la Mazza ha una presenza scenica importante e coinvolgente) . Lo spettacolo presterà il fianco a diverse ingenuità, non sarà perfetto, è ascrivibile in maniera evidente a un’estetica tardo Eighties non troppo raffinata… ma a questo punto poco importa. Piace tanto, ed è questo che conta a teatro.
Figli di un dio minore, di Mark Metoff, al Teatro Franco Parenti fino al 6 novembre
Foto in evidenza di Gabriele Gelsi
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