“La vegetariana” ha vinto il Man Booker International Prize 2016. La scrittura di Han Kang è asciutta, precisa, senza pietismi, intensa, il suo è insieme racconto di una malattia, di un’ossessione, di legami famigliari e amorosi, dell’attrazione erotica, e insieme romanzo esistenziale, sul senso della vita e del suo compimento.
La vegetariana, della scrittrice coreana Han Kang, come il titolo ci sbatte subito in faccia, è la storia di una donna che decide di eliminare la carne dalla sua dieta. È la storia di Yeong-hye. Conosciamo la protagonista attraverso lo sguardo del marito, del cognato, della sorella e contemporaneamente impariamo a conoscere le tre voci narranti; il loro mondo che si scontra contro l’ostinata passività, il silenzio minaccioso della Vegetariana. Ed è questo uno degli aspetti più interessanti del libro che si è aggiudicato il Man Booker International Prize 2016.
Per il marito Yeong-hye non è più la moglie, ma una presenza oscura, ribelle, fastidiosa, da cancellare. L’aveva scelta perché non era né particolarmente bella, né intelligente, né sensuale; era invece docile e silenziosa: una donna da sposare, non gli avrebbe creato problemi. Come i bravi cani gli obbediva, lo aspettava e non pretendeva nulla. Dopo cinque anni tranquilli, la moglie comincia a non mangiare più carne e poi a non cucinarla più neanche a lui.
Era indignato, la famiglia di lei era indignata: la moglie deve essere servizievole, come osava Yeong-hye disubbidire?
Questa assoluta sottomissione delle donne al volere del padre e del marito è forse l’unico aspetto ‘orientale’ del libro, che contrasta in maniera stridente, per noi occidentali, con l’indipendenza economica raggiunta dalle donne. E così, si trova fra le pagine del libro la sorella della vegetariana che serve come una schiava la famiglia, pur essendo una imprenditrice di successo che mantiene il marito con velleità artistiche.
Yeong-hye non riesce a trovare da nessuna parte conforto e sostegno alla sua scelta: madre e padre sono, anch’essi, dalla parte del marito. La situazione col tempo degenera. Lei diventa sempre più strana, non mangia più nulla: solo acqua, come le piante e salta in primo piano l’esangue magrezza del suo corpo, trasfigurato dal cognato in quello di una Dafne fuggente che l’ira di Apollo trasforma in albero. E la scrittura di Han Kang si fa pittorica nel rappresentare il cognato che dipinge il corpo di Yeong-hye di fiori meravigliosi per avvilupparsi a esso, creare il capolavoro assoluto del dissolvimento.
La narrazione mantiene un ritmo teso su un filo pronto a spezzarsi, fino a sfociare in scene quasi grottescamente drammatiche e di grande forza incisiva. Yeong-hye si ritrova così con un coltello in mano a minacciare la sua famiglia, per difendersi dal padre che, violentemente, le ha ficcato in bocca un pezzo di carne sanguinolenta.
La percezione dei tre narratori della stranezza irrimediabile della vegetariana esplode nel tema della pazzia e del manicomio dove la protagonista viene fatta ricoverare, bollata come pazza-pericolosa per sé e per gli altri.
Alla presupposta pazzia si affianca la tematica del silenzio: Yong-ye non parla più. Leggiamo – scritto in prima persona, in corsivo – il racconto dei suoi sogni- deliri, carichi di carne sanguinolenta, di urla strazianti, di mostruose creature, di alberi maestosi che si proiettano verso il cielo con radici che affondano fino al centro della terra. Ma il corsivo ci segnala che questi discorsi sono intrappolati nel silenzio, costretti nell’interiorità della vegetariana che non riesce a condividerli con nessuno.
La scrittura di Han Kang è asciutta, precisa, senza pietismi, intensa, il suo è insieme racconto di una malattia, di un’ossessione, di legami famigliari e amorosi, dell’attrazione erotica, e insieme romanzo esistenziale, sul senso della vita e del suo compimento.