Luca Micheletti mette in scena il corrosivo testo di Tabori: tra rimandi brechtiani e cultura yiddish, il risultato coinvolge e convince
«Tre ebrei sono una bella coppia». O ancora: «Due ebrei, tre opinioni». Solo lo yiddish humour può trasformare il due in tre e viceversa, cabalisticamente. E di humour ce ne è tanto in Variazioni Goldberg, storiella ebraica dell’ungherese George Tabori coprodotto dal Parenti e dai Guitti e in scena fino al 13 novembre. Bach c’entra poco, nonostante il titolo. La commedia è piuttosto un cortocircuito di sacro nonsense con ingranaggio metateatrale: una compagnia di Gerusalemme mette in scena niente meno che Bibbia e Vangelo e li interpreta dall’Eden al Calvario, con prevedibili liti esegetiche tra attori e regista.
Il testo è ironico e autoironico, pieno di spirito oltre che di spunti brechtiani, attinti direttamente alla fonte durante gli anni americani di Tabori, che di Brecht fu molto amico. Ma è l’umorismo sempre caustico il suo marchio kasher: famosissima del resto la farsa Mein Kampf, «love story» dell’assurdo scritta qualche anno prima di questa, con il giovane Hitler in crisi e le sue confidenze a un vecchio ebreo di cui diventa amico.
Proprio la corrosività di scrittura diventa l’unico tono possibile per affrontare i testi sacri e la loro epica. Il teatro nel teatro permette perfino un po’ di svago tra un profeta e l’altro: tanto c’è il cambio scena. Sono prove in cui ci si interrompe di continuo, mentre dalla Bibbia al palco si costruisce a poco a poco un mondo, che può essere creazione fisica o metafisica, ritualità artistica o religiosa a seconda dello sguardo.
Luca Micheletti, regista-attore al quadrato, è in scena da regista-attore come da copione per giocare a fare Dio, comandamento dopo comandamento, in religioso gioco delle parti. Buona scusa per interpretare un personaggio collerico e contradditorio, anche smodato ed eccessivo: del resto è Dio in persona, per giunta del Capricorno a quanto dice Tabori. L’importante è non prendersi troppo sul serio perché uno spettacolo, come l’universo, sarà sempre pieno di difetti. E se perfino Dio è giustificato figuriamoci un regista: in fondo «non esistevano modelli a cui ispirarsi». Per il teatro vale forse più che per il mondo stesso.
La scena fonoassorbente si riempie fin da subito di fatiche registiche. Dal suo zero sonoro riemette ogni possibile sovrapposizione musicale, sacra e profana, dal rock al clavicembalo sempre a tutto volume. Un palco ovattato e insonorizzato, ma per nulla silenzioso. Soprattutto non tace l’intelligenza teatrale di Micheletti, che forse allunga e cita troppo senza risparmiarsi due o tre finali.
Eppure nonostante il solito abuso del Grande Inquisitore dai Karamazov – in effetti nel testo, ma sacrificabile – lo spettacolo ha sempre l’attenzione del pubblico. E non mancano scene che funzionano e che emozionano, dalle perplessità di Mosè sul Sinai in divino colloquio, a Giona beckettiano in un finale di partita dentro il suo bidone-balena. Merito anche di Marcella Romei, magnifica Goldberg en travesti che sa dare e togliere al momento giusto senza mai predicare dal pulpito. Ma la raffinata incursione dal Mein Kampf della gallina Mitzi, viva e vegeta nell’Eden, poi spennata e cucinata, è mano di regista.
(per il video si ringrazia Teatro Franco Parenti)
Variazioni Goldberg, al Teatro Franco Parenti fino al 13 novembre