Collaborators: l’ultimo testo di John Hodge (già penna per Danny Boyle di «Trainspotting», «Piccoli omicidi tra amici» e «The beach») racconta il legame tra cultura e… censura
Non tutti hanno avuto la fortuna di avere un sostenitore comunista. Nel caso di Michail Bulgakov si trattava di Stalin in persona, che pare avesse assistito a ben quindici repliche de La guardia bianca. Evidentemente l’opera giovanile di Bulgakov toccava le corde del grande dittatore, che pare si commuovesse per la conversione finale dei controrivoluzionari. Così per celebrare Stalin in teatro fu chiamato proprio questo ex dottore – come Čechov del resto -, erede letterario di Gogol. Titolo: il giovane Stalin, o magari l’eroico Stalin. Insomma sempre di infanzia di un capo si tratta, epopea sulla forza e l’ingegno del «prete» di tutti gli operai, a partire dagli anni del seminario a Tbilisi.
Questi sono i rapporti tra arte e potere descritti in Collaborators, ambiziosa produzione del Teatro Filodrammatici che porta per la prima volta in Italia il testo di John Hodge, più famoso come sceneggiatore del cult Trainspotting e ancora prima per i cinici omicidi – ma piccoli – con cui debuttava Ewan McGregor sempre con Danny Boyle.
Di solito al di sopra di ogni sospetto, qui l’arte è oggetto di un’indagine lunga ma scorrevole, ben tradotta e diretta da Bruno Fornasari. E si scopre che anche il più libero dei pensatori può cedere alle lusinghe del potere, la cui subdola microfisica è efficace quanto ricatti e minacce. Così perfino Bulgakov si piegò a Stalin, e fin qui nessuno scandalo. Solo che nello strano gioco delle parti su cui Hodge ha ricamato, è Stalin alle prese con la battitura a macchina del dramma, mentre gli affari di stato passano nelle mani dello scrittore, candidamente prive di buone intenzioni.
Delitto per delitto: da una parte un encomio autobiografico dall’altra l’inconsapevole trovata delle purghe staliniane. E Bulgakov si ritrova suo malgrado non solo complice ma addirittura mandante, motore di una pervasiva meccanica del sospetto, e tutto per una nota scritta a piè di pagina distrattamente: «Fate ulteriori indagini», ordine che contemporaneamente vuole e non vuole significare tutti i tremendi effetti che verranno. Giocare a essere un altro, come l’attore che si mimetizza nel personaggio quando studia la parte: è il metodo Stanislavskij portato al parossismo. Alla fine il paradosso è che il dramma non lo scrive chi dovrebbe mentre l’artista si sorprende a difendere il suo stesso carnefice in una discussione a cena.
Bravi i quattordici attori coinvolti sul piccolo palco del Filodrammatici in questo lungo dramma, talmente incalzante che sembra scritto più per il cinema che per il teatro, quasi con la regola dei tre minuti per scena: la suspense non manca mai e il ritmo fa il resto. Servirebbe forse un po’ di ambiguità in più per sovrapporre e intrecciare davvero i due personaggi: i loro detti non sono mai contraddetti e la regia, che è sempre pulita, lo è perfino un po’ troppo e tende a volte al monocromatico. Ma non può non colpire lo Stalin da basso buffo di Alberto Mancioppi, ancora più inquietante nel finale, così come funziona il dramma di Tommaso Amadio-Bulgakov che si rende conto dell’irreversibilità dei suoi gesti, dopo aver «svegliato il can che dorme».
Tanti sketch e atmosfere da cinema muto alla Marx. Ovviamente Groucho.
Per le foto e il video si ringrazia Teatro dei Filodrammatici
Collaborators, di John Hodge, al teatro dei Filodrammatici fino al 4 dicembre