Crescere in America, seppur democratica e politically correct o in una famiglia comunista italiana: e la notte in cui a Cuba muore Fidel Castro misurare l’effetto che fa
Era l’una di notte quando Dan, salendo le scale per andare a letto mentre guardava il telefonino, ha annunciato: «È morto Fidel!». Io e Paula, la mia migliore amica, eravamo ancora attorno al tavolo della cucina, a raccontarci quello che ci è successo in questi nove mesi, e cioè dall’ultima volta che ci siamo viste. Mentre lei continuava a parlare, quasi ignorando la notizia, io ho sentito un tuffo al cuore, lo stesso tuffo al cuore di quando ho saputo che era morto Falcone, o Troisi e sì, lo ammetto, Lucio Dalla: come Fidel Castro è morto? Poco dopo le ho dato la buonanotte e sono andata a letto, a fissare il soffitto e a pensare.
Io e Dan ci conosciamo da più di vent’anni, e in questi anni abbiamo fatto mille discussioni politiche, ma le più aspre sono state quelle su Cuba e su Fidel. «Odio le dittature, punto e basta. Che siano di destra o di sinistra non mi interessa. La libertà prima di tutto!», dice Dan senza lasciarmi finire quando invece dico: «È riduttivo chiamarla soltanto dittatura: Fidel è un simbolo, icona della resistenza comunista, l’unico in grado di tenere alto il dito medio a voi americani per sessant’anni, senza abbassare la testa come tanti altri paesi latinoamericani che avete distrutto con la vostra smania anticomunista». Insomma, le discussioni su Cuba sono sempre quelle: lui che dice che Fidel è un dittatore e non ha niente di romantico, e io che dico che non capisce un cazzo.
Ieri sera abbiamo fatto ancora la solita litigata, ma questa volta sono arrivata finalmente a una conclusione che credo sia quella più valida: la nostra è una differenza non politica, ma culturale.
Dan è cresciuto negli Stati Uniti, in un paesino molto aperto mentalmente, filosoficamente ancora vicino agli hippies degli anni ’60, esageratamente politically correct, ma pur sempre negli Stati Uniti. È cresciuto con il terrore che la Russia li attaccasse, che una bomba atomica li distruggesse. Mi racconta che quando era alle elementari tutti gli studenti facevano le prove mettendosi sotto i banchi in caso di attacco da parte dell’Urss. È cresciuto in una nazione ricca, che ha dominato un sacco di altri Paesi, distruggendone molti nel nome della democrazia e dell’anticomunismo. Dan è cresciuto con un’idea di democrazia all’americana, e cioè basata sul capitalismo, sul «Ce la fai se ce la metti tutta», e non «tutti dobbiamo avere un pezzo di successo, non solo quelli che possono». Dan è cresciuto con Reagan, con Bush, con una retorica campanilistica centrata sul suo Paese, che considera migliore di tanti altri. È cresciuto odiando Reagan e Bush e senza dare troppo peso alla retorica ipernazionalista, s’intende. Ma ha respirato quell’aria, faceva parte di quel mondo.
Io sono cresciuta in Europa, in una famiglia comunista, e per me i nemici erano loro, gli americani. Non ho mai conosciuto nella mia vita una persona che fosse di sinistra e pro-America. Mai. Così come lui è cresciuto pensando che Castro non fosse che un dittatore, io sono cresciuta con l’idea che l’America fosse imperialista e ingiusta, e che l’idea di uguaglianza sociale e di diritti per tutti fosse quella a cui aspirare. È questa, credo, la profonda differenza fra me e Dan, che viene fuori proprio quando si parla di Fidel, di Cuba, perché Cuba rappresenta l’unico Paese al mondo che è rimasto lì, unico baluardo di un’utopia comunista in cui tutti noi avevamo creduto. Abbiamo tutti fatto il tifo per la révolucion, perché l’alternativa era che diventasse un altro Paese distrutto dagli interessi americani, che supportavano dittature davvero violente, tutte di destra.
Il risultato che ha raggiunto Cuba è, credo straordinario: certo, Fidel è stato un dittatore; certo, Fidel ha comandato per 40 anni senza avversari politici; certo, sono stati fatti errori. Eppure, a differenza degli Stati Uniti, a Cuba l’istruzione è gratuita, la sanità medica è gratuita, i servizi sociali sono ottimi. Malgrado un embargo che ha distrutto l’economia e ha impoverito tremendamente l’isola caraibica, Cuba è riuscita a sopravvivere con le pochissime risorse che le erano rimaste e ha rafforzato e unito il suo popolo. Gli americani, che certamente non vivono in una dittatura, non hanno neanche la sanità medica gratuita, e andare al college costa dai venti ai cinquantamila dollari l’anno. Il gap tra chi ha e chi non ha, negli Stati Uniti, è altissimo, così come il numero di incarcerati, di persone che si ammazzano con pistole che comprano come caramelle.
Non so se in Italia si segue quello che sta succedendo in North Dakota: un centinaio di nativi americani stanno protestando perché non vogliono che l’oleodotto passi per il loro territorio, perché in America c’è il diritto di protesta, che è sacrosanto. Ma la polizia sta reagendo come reagisce la polizia americana in questi casi: crea guerriglia, spara, ferisce. Perché se è vero che a Cuba i dissidenti sono messi in carcere, qui vengono malmenati, ridicolizzati. Quando si vota, in questa democrazia tanto bella da importare, l’Onu deve venire a controllare che non ci siano frodi, e poi c’è il recount perché non ci si fida comunque.
Lo so: mettere Cuba e gli Stati Uniti a confronto è assurdo: sarebbe come mettere a confronto un elefante con una formica. Ma io sto dalla parte della formica, soprattutto quando riesce a fare lo sgambetto al pachiderma.
Ora non oso dire a Dan che anche nel conflitto Israele-Palestina sto dalla parte dei più deboli, ma questa discussione sarà per un’altra volta.
Foto in apertura: Steven Mileham