“Il cadavere rapito” di Marchel Jouhandeau è un racconto angoscioso, straziante, mistico, paradossalmente magniloquente. Schizzi di vita quotidiana cattolica nella provincia francese vagamente in odore di eresia.
Un racconto gotico, tenebroso, occupato interamente da un unico protagonista, il maestoso, impenetrabile, padre Diverneresse, rinominato Simon Mago dagli abitanti della sua parrocchia, che fa di tutto per alimentare lo sconcerto, la paura, le insinuazioni di quei poveri paesani di Port Salut, nella profonda provincia francese.
A differenza di tanti romanzi di George Simenon o di Jaques Chessex, ambientati in una provincia molto simile a Port Salut, come rispettivamente quella belga e quella svizzera, in cui i veri colpevoli non sono tanto gli assassini materiali, ma piuttosto la torbida, meschina mentalità degli squallidi benpensanti, nel Cadavere Rapito padre Diverneresse ostenta troppo la sua superiorità, il suo disprezzo per qualsiasi cosa perché possa suscitare il minimo moto di simpatia nel lettore.
Marchel Jouhandeau è talmente posseduto, ossessionato dal suo protagonista che straborda, esagera in effetti speciali: padre Diverneresse è altissimo, magro, come scolpito nel più duro dei legni, si avviluppa in cupi mantelli, non rivolge la parola a nessuno. I fedeli hanno smesso di frequentare la chiesa per non suscitare la sua ira. Fa stendere della paglia intorno al sagrato per non sentire il rumore dei carri. Di notte accende tutte le candele dei magnifici lampadari di casa perché teme le tenebre.
Mangia solo pane e acqua; la sua perpetua è disperata, non può neanche fare le pulizie e nella sua frustrazione alimenta i sospetti più crudeli.
Il prelato ha ereditato dal fratello cardinale e dallo zio vescovo paramenti sontuosi dalle più incredibili tonalità, di cui si ammanta in solitudine davanti all’altare, solo per la gloria di Dio; possiede magnifico vasellame e migliaia e migliaia di libri, che ha ordinato scrupolosamente e sistemato in ogni anfratto della canonica, ma che non ha mai letto. Ha superato qualsiasi forma di comunicazione, di memoria, di interesse. Un vuoto senza Dio, oppure Dio è il vuoto.
Angoscioso, straziante, mistico, paradossalmente magniloquente.
Sono schizzi di vita quotidiana cattolica nella provincia francese, intrisi di un formidabile misticismo e, come mi diceva qualcuno l’altro giorno “ vagamente in odore di eresia”. In questi bozzetti, nei quali tornano sempre gli stessi personaggi, vi è in effetti una sorta di inestricabile groviglio di devozione e di vizio che a volte sfiora il fanatismo.
Così scriveva da Parigi Walter Benjamin il 20 gennaio 1930 all’amico Gershom Scholem consigliandogli di leggere la raccolta di racconti Le saladier di cui fa parte il nostro Il cadavere rapito, e che tradurrà in parte.
Cattolico fervente, ossessionato dal peccato, Marchel Jouhandeau ha sempre vissuto la sua omosessualità come un diritto, un’ostentazione e un peccato.
Nel 1953 L’Osservatore Romano lo accuserà di “distillare gli umori più dissolventi e brucianti del vizio”, definendolo “alchimista del demonio”. Per Claude Mauriac: “Ha l’espressione tormentata dei santi dipinti da Casmé Tura: una maschera, al pari di loro, senza età, fatta della stessa materia incorruttibile, solidificata nel crogiuolo di una fusione infernale”.
Padre Diverneresse è il suo autoritratto.