Nel suo ultimo lavoro “Paterson”, con Adam Driver e Golshifteh Farahani, il regista storico del cinema indipendente americano tratteggia un’elegia dell’amore e della vita quotidiana, sempre in bilico tra lirismo e inquietudine, sullo sfondo di una piccola città di provincia. Un film deliziosamente anti-narrativo e anti-moderno, ma ricco di idee buone di cinema
L’elegia dell’amore quotidiano e insieme la sua adorabile mediocrità, il fascino del dettaglio e del particolare nell’interazione umana “contro” l’azione ossessiva, cupa, drammatica, che domina oggi i prodotti hollywoodiani. E il fascino del mondo visto dal finestrino di un guidatore d’autobus di una piccola città, che diventa poesia scritta sul suo minuscolo taccuino da cui mai si separa e che finirà nelle mani di un imprevedibile turista giapponese dalle surreali movenze alla Kitano.
Tutto questo è Paterson, di Jim Jarmusch, ultimo film del principe del cinema indipendente americano, che declina la sua storia-non storia dividendola in sette giorni prototipo della settimana, tutti aperti da una sequenza dall’alto che mostra i due protagonisti, Paterson, impersonato dal lanciatissimo Adam Driver (che vedremo presto in Silence di Martin Scorsese) e Laura, che ha l’incantevole aspetto dell’attrice e cantautrice iraniana Golshifteh Farahani, già vista in opere di Ridley Scott, Satrapi e Hansen Love: marito e moglie, si amano senza dubbi e incrinature, e consumano teneramente abbracciati ogni loro risveglio mattutino.
Jarmusch li osserva affettuoso, e li descrive con un’incredibile fantasia visiva, lavorando su un canovaccio che al contrario più essenziale, più asciugato di così non potrebbe essere, fin quasi a raggiungere un’apparente povertà narrativa nel miglior stile Kaurismaki, tanto che la casetta dei due ricorda molti rifugi dell’anima del regista finlandese (ma anche un po’ la baracca della “Febbre dell’oro” di Chaplin). L’ormai quasi 64enne Jarmusch, regista dell’Ohio (come Spielberg) che con Stranger Than Paradise ha vinto il Pardo d’Oro a Locarno e con Broken Flowers, il Gran premio della giuria a Cannes, si conferma anche qui ottimo direttore d’attori, in una galleria che va da Tom Waits a Roberto Benigni, da Johnny Depp a Bill Murray.
Specchio rovesciato del caos, della violenza della società statunitense, volutamente anti-narrativo e anti-contemporaneo, Paterson si muove in un limbo che racchiude microcosmi ideali come il bar di neri che ascoltano jazz. Dove, anche quando si preannuncia una scena madre, tutto si risolve e si dissolve in un gentile minimalismo che abbraccia il pacchetto di fiammiferi preferiti dal driver (mestiere del protagonista e nome dell’attore), la poesia della bambina che incontra per strada, bella quanto le sue che ne scrive da decenni, l’amato bulldog della coppia e i progetti impossibili della creativa e irreale Laura. A Paterson, Ohio, dove tutto si svolge e dai mai ci si allontana.