Il jazz amato da Walt Disney, il Don Giovanni di Teodor Currentzis, le Danze Slave di Dvorak secondo la Czech Philharmonic diretta da Jiri Belohlavek sono alcune chicche di questa settimana. Buona lettura!
Alberto Savinio – Les chants de la mi-mort
«Chi ha visto le mie pitture, chi ha letto i miei libri, chi ha ascoltato la mia musica, sa che il mio unico compito è dare parole, dare forma e colori – e una volta era pure dare suoni – a un mio mondo poetico». Così, nel 1940, si presentava Andrea Francesco Alberto de Chirico in arte Alberto Savinio (1891-1952), fratello minore per età di Giorgio de Chirico, fratello in realtà maggiore per talento. Scrittore e critico teatrale, pittore e musicista, scenografo e costumista, Alberto Savinio si vede dedicare dal Museo del Novecento un omaggio, curato da NoMus, soprattutto come musicista. Alberto Savinio. L’uomo isola, dal 17 gennaio al 15 maggio, offrirà mostre, convegni e concerti. Inaugurazione il 17 gennaio: oltre alla mostra, c’è il primo assaggio delle sue musiche: Les chants de la mi-mort (qui sotto, in una trascrizione di Rognoni e Ballista, ****) eseguiti nella Sala Arte Povera da Luca Lombardi.
Jamie Cullum – Ev’rybody wants to be a cat
Stacey Kent – Bibbidi-bobbidi-boo
Raphael Gualazzi – I wanna be like you (The monkey song)
Il jazz ha sempre amato le musiche dei cartoni animati di Walt Disney. Frugo nella memoria e mi vengono in mente la meravigliosa Someday my prince will come, da Cenerentola, di Bill Evans (che fece anche Alice in Wonderland). E poi Louis Armstrong, Dave Brubeck, il manipolo di jazzisti che collaborarono con il grande Hal Willner, deus ex machina musicale del Saturday night live quando c’era John Belushi, nell’album disneyano Stay awake del 1988 (****1/2, se non lo avete mai ascoltato rimediate, c’erano anche Suzanne Vega, Tom Waits, James Taylor, Ringo Starr, Los Lobos e molti altri): Sun Ra, Bill Frisell, Betty Carter e Brandford Marsalis. Jazz loves Disney (***1/2), recente album collettivo della Verve, è l’ultimo omaggio a quelle musiche e a quelle atmosfere. Io ho scelto Jamie Cullum che si ispira a Duke Ellington nell’aristogattesca Ev’rybody wants to be a cat, la deliziosa Stacey Kent che volge in francese Bibbidi bobbidu bu da Cenerentola (in francese, e altrettanto deliziosa, c’è anche Un jour mon prince viendra fatta da Nikki Yanofsky) e il nostro Raphael Gualazzi a suo agio con I wanna be like you, dal Libro della giungla, anche se la versione dei Los Lobos in Stay awake, cercatela su YouTube, era e resta inarrivabile. Molto bella anche When you wish upon a star, da Pinocchio, affidata al soulman Gregory Porter.
Car Seat Headrest – Fill in the blank/ (Joe gets kicked out of school for using) Drugs with his friends (but says this isn’t a problem)/ The ballad of Costa Concordia
Faccia da nerd e attitudine da self made boy, il virginiano Will Toledo è l’ultimo giovane Holden della scena rock americana. Per cinque anni ha registrato i suoi album (dodici, tutti diffusi attraverso Bandcamp) nel sedile posteriore dell’auto. Il nome della band, Car Seat Headrest, il cuscinetto poggiatesta, viene da lì. Arrivato al contratto con la Matador e approdato nel frattempo a Seattle, dopo un’antologia delle sue musiche adolescenti ha realizzato, con un vero produttore e una vera band, Teens of denial (****1/2), manifesto tra svaccato e furente della nuova gioventù troppo depressa per potere aspirare alla rivolta. “Sono così stufo di riempire gli spazi vuoti//Tu non hai nessun diritto di essere depresso/ non hai cercato di fare la tua parte/ non conosci abbastanza il mondo// Ma fa male, fa male, fa male, fa male”” (Fill the blank, che si ribalterà nella strofa conclusiva “Ho tutto il diritto di essere depresso”). Una dialettica impossibile fra ragazzi e adulti che ritorna nell’acre e corrosiva Joe gets kicked out of school... (“Venerdì scorso ho preso acido e funghi/ senza esagerare, mi sentivo un pezzo di merda ambulante/ in una giacca da scemo/Ho fatto un giro in città e mi sembrava di essere a Sodoma/ c’erano persone disgustose che cercavano conforto per i loro corpi/ era così osceno/ pieni di odio e fervore religioso/Mi sono steso sul pavimento nella stanza di un amico, per un’ora/cercando di non pisciarmi addosso/e allora ho visto Gesù”). Nessun trip mistico: Gesù, come suo padre, lo accusa di essere feccia perché non aderisce al mondo e ai valori dei grandi, dei Padri appunto. Un sound chitarristico che trabocca di umori da anni ’90, un’attitudine a scrivere brani che lasciano il segno, Will Toledo si concede una lunga divagazione quasi alt-country, The ballad of Costa Concordia, per fare del comandante della nave da crociera l’esempio dell’inetto totale (e qui ha ragione), dell’antieroe sfigato, proiezione dello slacker giovanile, a cui non ne va bene una. E qui ha torto, perché Schettino non si vede nei panni dell’inetto e del colpevole (oltreché del vigliacco: “Torni a bordo, cazzo!”, ricordate?), ma in quelli del quasi eroe che il destino cinico e baro ha atterrato.
Antonella Ruggiero – Vacanze romane/ Elettrochoc/ Fantasia
La vita imprevedibile delle canzoni (****), ovvero quando il repertorio pop di una delle nostre cantanti più eclettiche incontra il pianoforte classico, trasformandosi in (quasi) liederistica contemporanea. Parlo di Antonella Ruggiero, voce storica dei Matia Bazar più raffinati, quelli di Vacanze romane e Ti sento, di Aristocratica ed Elettrochoc, il cui timbro di soprano leggero è esaltato da Andrea Bacchetti, pianista ed ex enfant prodige che ha alle spalle incisioni acclamate (Berio, Cherubini, Scarlatti, Mozart, Bach) e incursioni televisive nel varietà. Un felice incontro di tecnica e temperamento.
Mitski – Happy/ Your best American girl/ A burning hill
“Tua madre non approverebbe come mia madre mi ha cresciuta/ ma io sì, io penso di approvarla” (Your best American girl). “Sono stufa di volere di più, penso di essere davvero stanca, amerò cose più semplici” (A burning hill). Frustrazione e felicità, una frustrazione indefinita e pervasiva e una felicità che cerca di stare con i piedi per terra e di ancorarsi ai dettagli quotidiani ma resta indefinibile. In una scrittura secca e tagliente, che miscela elementi eterogenei (punk e psych, anni ’60, industrial e r&b) cercando di forzare gli stilemi indie-rock, Puberty 2 (****) della 25enne Mitski Miyawaki, nippo-americana di stanza a Brooklyn, trova la sua ragione e la sua urgenza, offrendosi come uno dei migliori diari generazionali della stagione. Sto leggendo Una vita come tante di Hanya Yanagihara, Sellerio, fluviale romanzo (anche) sulla lunga pubertà e la lenta crescita di quattro amici a New York, e questa mi sembra una colonna sonora appropriata almeno per due dei personaggi, Malcolm e JB.
Sfera Ebbasta – Figli di papà/ BRNBQ
Gionata Boschetti in arte Sfera Ebbasta, 24 anni da Cinisello Balsamo, è la nuova big thing del rap italiano. Merito dell’album di esordio Sfera Ebbasta (***1/2), testi crudi e sonorità contemporanee innovative impostate dal produttore e beatmaker Charlie Charles. La miseria, l’ossessione del successo e dei soldi e dei capi alla moda, la vita come sfida e come merce: niente di clamorosamente nuovo, niente di esaltante, ma tutto rappato con sicurezza invidiabile.
Soul System – Gold digger
Gaia – Piece of my heart
I vincitori dell’ultima edizione di X-Factor propongono una miscela di hip-hop, soul, r&b con un’acconcia laccatura pop. Nell’Ep She’s like a star (***), oltre all’originale che dà il titolo al disco, pescano da Jay-Z (Holy grail), Kanye West (Gold digger), Ace of Base (All she wants), Black Eyed Peas (Where is the love?) e Ed Sheeran (Thinking out loud). La tecnica c’è ma a me, ripulitini come sono, dicono poco. Lo stesso discorso vale, in parte, per la seconda classificata Gaia Gozzi. Timbro alla Florence Welch, in New dawns (***) offre l’inedito omonimo e cover da Tracy Chapman (Fast car, un po’ troppo gregaria, più un’imitazione che un’interpretazione), Alessia Cara (Wild things), Janis Joplin (Piece of my heart) e Luigi Tenco (Vedrai vedrai). Non male, preferisco lei a loro.
Spencer Davis Group – I’m a man/Gimme some lovin’
Originari di Birmingham, attivi fra il 1963 e il 1969, gli Spencer Davis Group, intestati al chitarrista e cantante Spencer Davis, godettero di buona popolarità con due primi posti in classifica (Keep on running nel 1965 e Somebody helps me nel 1966), anche se io preferisco Gimme some lovin’ del 1966, soltanto secondo ma che sarebbe stato ripreso dai Blues Brothers, e I’m a man, soltanto nono, del 1967. Li cantava, con una voce nera inconfondibile, un adolescente di genio, Stevie Winwood, che esordì a 17 anni nel gruppo, era il 1965, e abbandonò per mettersi in proprio nel 1967. In proprio significava Traffic, Blind Faith, collaborazioni entrate nella storia del rock con Jimi Hendrix, Joe Cocker, Eric Clapton, oltre a una fortunata carriera solista. È uscita ora una bella antologia (Spotlight on Spencer Davis Group, ****) che fotografa i loro anni migliori e il loro beat intriso di soul bianco e r&b, mentre al gruppo post-Winwood è dedicato il triplo e non indispensabile (***) Taking time out. The complete recordings 1967-1969.
Loredana Errore – Dio come ti amo
Loredana Errore, cantante pop di vena tradizionale lanciata dall’edizione 2010 di Amici, mi dice poco ma è senz’altro colpa mia, non amo e non frequento troppo le patrie canzonette da prima serata tv. Ma non riesco a resistere al fascino del weird, e così la cover della mielosissima Dio come ti amo, **1/2 (1966, fra le canzoni meno belle di Modugno, il che non gli impedì di vincere a Sanremo con Gigliola Cinquetti), con le sue sfumature emodark de noantri, finisce nella mia playlist.
Martinelli – Farfalena/ Cartoni animati/ Milano e le poste
Lui si presenta così: “Andrea Martinelli nasce a Lecco il 13 settembre 1979 in ritardo di una settimana, con già alle sue spalle un travagliato periodo di ripensamenti. Sin da piccolo coltiva l’amore per l’arte, per la pittura in modo particolare, per il teatro, la danza artistica, ma soprattutto quello per il suo cane Peggy. Non ha mai toccato un pallone. Non ha mai avuto una bicicletta con cambi Shimano 18 velocità. Ma per il Natale dei suoi otto anni si fece regalare una musicassetta di Drupi. Frequenta il liceo artistico della sua città per poi diplomarsi come geometra. Cresce con le note di Lucio Dalla e Graziani, tra De Gregori e Rino Gaetano, in mezzo a quel pantheon di cantautori dove in un angolino puoi anche trovare Gianni Togni. Inizia a muovere i suoi primi passi scrivendo racconti, per poi inconsapevolmente trovarsi a scrivere canzoni con in mano una chitarra senza saperla suonare”. Andrea Martinelli in arte Martinelli esordisce con l’ottimo Sottoponziopilato (****) per Parola Cantata, la nuova etichetta di Mauro Ermanno Giovanardi, ex La Crus. Una voce con venature isteriche alla Jannacci, un senso del surreale fra Jannacci e Rino Gaetano, che dà vita a storie con Babbi Natale assassinati, amici sfigati, vecchi porno e vecchietti che schiattano mentre vanno a donne, false interviste a Fausto Coppi, banditi alla Tarantino e amori al capolinea. Gran bella opera prima.
Adele – Water under the bridge/ When we were young/ Million years ago
Nuovo singolo, Water under the bridge (***), per il fortunatissimo 25 (****) di Adele. Uscito verso la fine del 2015, l’album della 27enne cantante londinese è risultato per due anni consecutivi il più venduto in Gran Bretagna: con quasi due milioni e mezzo di copie nel 2015, con oltre 750mila copie nel 2016. Un’ impresa riuscita, prima di lei, soltanto a Simon & Garfunkel e ai Simply Red di Mick Hucknall. Perfetto prodotto pop nei dintorni del migliore Elton John (ma con echi di soul bianco, di chanson francese e molto altro), e soprattutto impeccabile cornice a una delle più belle voci dell’ultimo decennio, tanto vale che lo ripassiamo. Io scelgo due canzoni venate di nostalgia e rimpianti, sentimenti insoliti per una giovane artista, When we were young e Million years ago. Ma è così che si catturano le madri: puntando al cuore spezzato delle figlie.
Jiri Belohlavek – Danze slave di Dvorak
The Busch Trio – Piano trio n.3 op. 65 di Dvorak
Nicola Guerini – Mazurek di Dvorak
Fin da ragazzo, le Danze slave di Antonin Dvorak sono state nella mia playlist. Imparai a conoscerle, circa mezzo secolo fa, dalle benemerite dispense Fabbri sulla musica classica con vinile allegato (credo che la direzione di orchestra che ascoltai allora, ma la memoria potrebbe farmi difetto, fosse quella di Ernest Ansermet). E le ritrovo, fresche e splendide nella loro intonazione popolare, nelle loro invenzioni melodiche (soprattutto la prima serie del 1876) e nella loro sapienza armonica. Perfetta la Czech Philharmonic diretta da Jiri Belohlavek, che è stato allievo di Sergiu Celibidache e direttore della Bbc Orchestra (****1/2, ottima anche la versione per pianoforte a quattro mani di Kristina Krkavcova e Martin Kasik, ****). Per molto tempo di Dvorak è circolata soprattutto la Sinfonia n. 9 Dal Nuovo Mondo: tra le uscite recenti che si intensificano, meritano segnalazione gli spumeggianti Trii per pianoforte, violino e violoncello eseguiti dal giovane ensemble britannico The Busch Trio, attivo dal 2012 (****) e le pagine per violino e orchestra eseguite dalla Pkf Prague Philarmonia diretta dall’italiano Nicola Guerini (****), violino solista il russo Ilya Gringolts. E pazienza se il titolo del disco è un po’ ruffiano: A bohemian rhapsody.
Shirley Collins – Death and the Lady/ Old Johnny Buckle
Si può soffrire a tal punto da perdere la voce? È accaduto verso la fine degli anni ’70 a Shirley Collins, leggendaria esponente del folk britannico e ricercatrice nel Sud degli Stati Uniti con Alan Lomax (le loro registrazioni sul campo sono state utilizzate anche dai fratelli Coen per la colonna sonora di Fratello, dove sei?), in seguito al divorzio da Ashley Hutchings, leader della Albion Country Band. La malattia si chiamava disfonia e ha tenuto Shirley Collins lontana dalle scene fino a ieri (un’altra grande cantante inglese, Sheila Chandra, è stata costretta al silenzio una decina d’anni fa da una malattia che rendeva impossibile anche soltanto ridere o sorridere, la glossodinia o sindrome della bocca bruciante). Poi, a 79 anni, un concerto, e a 81 questo incredibile Lodestar (****1/2), registrato in un cottage del Sussex con un manipolo di giovani musicisti “freak folk”. Un disco fuori dal tempo, implacabile e non consolatorio, composto soprattutto da murder ballad, austero nella voce e drammatico nei toni (“C’era sangue in cucina, c’era sangue nell’atrio/ c’era sangue in salotto, dove la signora è caduta”, Death and the lady), scabro e urgente, ripulito di ogni vezzo e maniera come le ultime registrazioni di Johnny Cash con Rick Rubin alla cabina di regia. E già quando Shirley Collins, verso la fine del medley che apre il disco, intona: “Pentiti, pentiti, dolce Inghilterra/ perché stanno per arrivare giorni terribili”, vengono i brividi.
Giovanni Guidi/ Gianluca Petrella/ Louis Sclavis/ Gerald Cleaver – Ida Lupino
Henry Threadgill – Old locks and irregular verbs
Giusto per farvi un’idea del panorama. Per la storica rivista Musica Jazz, il disco italiano del 2016 è stato Ida Lupino (per i non addetti, era un celebre brano di Carla Bley) di Giovanni Guidi, Gianluca Petrella, Louis Sclavis e Gerard Cleaver (****). Disco straniero dell’annata trascorsa Old locks and irregular verbs di Henry Threadgill Ensemble Double Up (****). Musicisti dell’anno Franco D’Andrea e Threadgill, nuovi talenti Filippo Vignato, Mette Henriette e Jonathan Finlayson, ne riparleremo.
Teodor Currentzis – Don Giovanni di Mozart
Dice di sé: “Ho creato una comunità dove il solo interesse è la musica, totalizzante attività che presuppone educazione e allenamento, a qualsiasi ora”. Lui è Teodor Currentzis, 45 anni, profilo da rockstar dark, greco-russo che a Perm negli Urali, a 1400 chilometri da Mosca, ha creato un’orchestra simile a un ordine monastico-guerriero, MusicAeterna, che si prepara a conquistare l’Europa, La rivista Classic Voice, la più autorevole in Italia, gli dedica la copertina di gennaio e giura che questo sarà il suo anno. Gli appuntamenti lo confermano: il 30 marzo e il 10 aprile è a Ferrara per due concerti in memoria di Claudio Abbado (in programma, fra gli altri, Berio), poi a Lucerna per il Festival di Pasqua (Mozart, Beethoven, Pergolesi, Haydn), infine durante l’estate a Salisburgo per dirigere La clemenza di Tito (regia di Peter Sellars) e il Requiem di Mozart. Sullo sfondo, più in là, La Fenice di Venezia, il Covent Garden e l’incisione delle sinfonie di Beethoven. Intanto esce, per la Sony, un’edizione del Don Giovanni di Mozart (*****) che dà la piena misura del suo valore. Grande nell’irruenza e, insieme, nel nitore dei suoni (gli strumenti d’epoca si distinguono uno per uno, dal fortepiano al clarinetto, dai violini alle viole), Currentzis è anche uno straordinario direttore degli interpreti. Che non saranno divi o mostri sacri (Myrtò Papatanasiu, Vito Priante, Kenneth Tarver, Karina Gauvin, Christina Gansch, Dimitris Tiliakos) ma si dimostrano duttili e bravissimi, offrendo una resa intensa, di clamorosa penetrazione teatrale e non di rado sensualissima. Una pietra miliare nell’odierna interpretazione mozartiana.
David Bromberg – Walkin’ blues/ Delia/ You don’t have to go
Grande promessa e grande talento degli anni ’60 e ’70, il filadelfiano David Bromberg, classe 1945, chitarrista eccelso, è stato sessionman tra i più richiesti (anche da Bob Dylan, per cui ha suonato in tre album). E ha sfornato, sempre in quegli anni, album splendidi ed eccentrici, in cui capitava che a dargli una mano fossero i Grateful Dead più o meno al completo, o che a scrivere a quattro mani con lui ci fosse George Harrison. Poi, negli anni ’80, il ritiro dalle scene e la decisione di suonare ogni tanto in piccoli club e di dedicarsi alla costruzione di chitarre e violini. Da qualche anno Bromberg è tornato a incidere e il recente The blues, the whole blues and nothing but the blues (****) lo mostra in splendida forma. Formazione chitarra – basso – batteria – mandolino – violino, con guest musicians come Larry Campbell, a lungo con Dylan, alla chitarra, e Bill Payne dei Little Feat al piano, Bromberg affronta con piglio sicuro classici come Why are people like that? (Bobby Charles), A fool for you (Ray Charles), Eyesight to the blind (Sonny Boy Williamson) e You’ve been a good ole wagon (Bessie Smith). Io ho scelto Walking blues dell’immenso Robert Johnson, la murder ballad Delia (è la storia vera di una sedicenne nera uccisa agli inizi del ‘900, ne esistono differenti versioni, eseguite fra gli altri da Blind Willie McTell, Bob Dylan, Johnny Cash e Happy Traum), e You don’t have to go, scritto da Bromberg riecheggiando Sweet home Chicago.