Quaranta anni di storia del nostro paese e del suo principale quotidiano, il Corriere della Sera, raccontati in dettaglio e senza enfasi da uno che c’era, e da protagonista: Raffaele Fiengo, storico sindacalista, ci porta dentro le stanze, i giochi di potere, i momenti oscuri, il giornalismo di via Solferino
Ha ragione Alexander Stille, figlio di Ugo che fu grande giornalista e direttore del Corriere della Sera dal 1987 al 1992. Ha ragione Alexander Stille, giornalista a sua volta e docente alla Columbia University, quando scrive nell’introduzione a Il cuore del potere di Raffaele Fiengo (sottotitolo: Il “Corriere della Sera” nel racconto di un suo storico giornalista, ChiareLettere, pagg. 394): «Considerate le varie lotte di potere avvenute per il controllo del Corriere della Sera, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta. E il merito va ai giornalisti interessati a fare bene il proprio lavoro».
Uno di questi giornalisti è stato ed è Raffaele Fiengo, redattore culturale e inventore di supplementi innovativi dedicati alla scuola, all’università e alle città italiane. Oggi in pensione, Fiengo ha riversato la sua passione in un campo vicino e affine: dall’anno accademico 2000-2001 insegna Linguaggio giornalistico all’università di Padova.
Giornalista e docente, Fiengo è stato anche, e verrebbe da dire soprattutto, se non rischiasse di imprigionare la sua vivacità intellettuale, storico leader del comitato di redazione di via Solferino, l’organizzazione sindacale interna dei giornalisti.
Conosco Raffaele Fiengo da circa trent’anni, ho condiviso con lui molte battaglie sindacali e civili (“In ricordo della storia comune” ha voluto scrivere sulla mia copia), e ho letto il suo libro, prima di tutto, con sollievo, perché era giusto che oltre quarant’anni di vicende importanti per la storia del nostro paese venissero raccontate nei loro risvolti anche oscuri, anche minuti. Che di quelle battaglie per la libertà di stampa e per il giornale come servizio ai cittadini restasse memoria puntigliosa e dettagliata (uno dei pregi di questo libro è il tono pacato e fattuale, senza neanche un briciolo di retorica, con giudizi netti, ma senza una sola invettiva).
Ma anche con molto interesse, perché sapevo i tratti generali della storia ma ignoravo molti particolari. E così, per esempio, abituato a datare al 1994 la discesa in campo di Silvio Berlusconi, ho appreso che già nel 1977 aveva avuto un ruolo decisivo, lui imprenditore arrembante e piduista, nella nomina dell’altrettanto piduista Franco Di Bella alla direzione del Corriere. Che già nel 1978 collaborava con il quotidiano (un suo articolo di quel periodo, quando Berlusconi non ancora dominus della tv privata e non ancora leader politico, fondava un impero del mattone edificando Milano 2, si intitola “Pregiudizi e leggi inadatte frenano ancora l’edilizia”) e che, sempre in quegli anni, era all’Hotel Gallia assieme a Licio Gelli e Maurizio Costanzo per supervisionare la prima pagina del numero inaugurale del quotidiano popolare L’Occhio, pensato e diretto da Costanzo, sulla scorta del tedesco Bild, nell’ambito della campagna mediatica, sovversiva e populista insieme, della P2.
Con autentico divertimento poi, perché Il cuore del potere è anche una miniera di aneddoti non di rado spassosi. C’è per esempio Giovanni Spadolini, bizzoso e professorale direttore nel clima arroventato del post ’68, che si aggira urlante per i corridoi di via Solferino con una copia del quotidiano tra le mani. In terza pagina, sopra una foto che ricorda il terzo anniversario dello straripamento dell’Arno, il titolo recita: “Solenne Te Deum per l’alluvione di Firenze”. E Giovannone sbraita: “Ignoranti! Tutti ignoranti! Era un Requiem! Un Requiem! Voglio sapere chi è stato!” Chiamano la tipografia, arriva il capo dei correttori con la bozza della terza pagina: la calligrafia del titolo è quella di Spadolini. Che per l’intera mattinata si barrica nella sua stanza con la luce rossa accesa, vietato entrare.
Oppure Piero Ostellino, direttore diciamo non tra i più brillanti della storia del Corriere, che riesce a farsi rifilare (e a mettere in prima pagina su quattro colonne) una bufala colossale, un apocrifo dell’appena scarcerato dissidente sovietico Anatolij Sharansky. Il quale scriverebbe del gulag negli Urali nel quale ha trascorso nove anni: «Il pasto principale consisteva in carne, pane, riso e una tazza di tè. Il cibo era buonissimo e potevamo mangiarne quanto ne volevamo. I servizi igienici erano eccellenti. Una volta alla settimana potevamo scrivere una lettera e fare una telefonata. Il campo di lavoro era brutto, ma vivibile». Insomma, meglio della Pensione Aurora di Rimini, ovvio che Sharansky smentisca di avere scritto quel resoconto idilliaco, altrettanto ovvio che Ostellino si arrampichi sugli specchi per ridimensionare quell’infortunio atroce: se il Kgb voleva disinformare, non poteva trovare giornale più autorevole del Corriere.
O ancora l’intemerata di Pier Paolo Pasolini, non ancora collaboratore e autore dello storico “Io so” che invocava il processo alla Democrazia Cristiana (il testo rimase per quaranta giorni nel cassetto del direttore, prima di essere pubblicato) a Piero Ottone, reo di sostenere gli americani in Vietnam: «Caro ineffabile Ottone, sarebbe ora ti vergognassi per quello che “fai” scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere… Dunque, caro Ottone, se t’insegno a chiamare ogni cosa col nome che gli conviene, vorrai non avertene come uomo (come direttore sarebbe pretendere l’impossibile) se ti dico che sei una triviale e laida puttana. A Cesare quel che è di Cesare, alle puttane…».
Sollievo, interesse, divertimento. E commozione, nei passaggi più drammatici: lo stragismo italiano, i feroci colpi di stato in America Latina. Fiengo è in tipografia, a chiudere la terza, la sera dell’11 settembre 1973, mentre a Santiago del Cile i militari rovesciano Salvador Allende. Tutti smettono di lavorare, tipografi, giornalisti e dirigenti. Si affacciano anche il direttore generale, i responsabili amministrativi e la proprietà, a Fiengo pare che ci fosse anche Giulia Maria Crespi. «Con i lanci dell’Ansa in mano raggiungo Dante Gatti – detto “Micio”, leader dei tipografi – per farglieli leggere (…) Gatti era il capo dei poligrafici della Cgil, intransigente, ma pacato e tranquillo. Lui mi tira fuori dalla calca, c’era anche Guerrino Bellinzani, l’altro capo sindacale. Non mi chiedono nulla. Mi sollevano di peso sulla fontanella. “Leggili a tutti” mi dicono. In un silenzio assoluto, tenendomi alla grondaia, leggo le ultime agenzie. Ripeto via via le frasi pronunciate dal presidente alla radio mentre è in corso il golpe dei militari alla Casa Rosada. Fino all’ultimo foglietto portato da un fattorino: “Salvador Allende è morto”».
Ma il sentimento che prevale in me, man mano che leggo, è di riconoscenza e orgoglio. Chi vuol sapere perché fare sindacato tra i giornalisti sia stato importante – fare sindacato per passione, a titolo gratuito e volontario, senza diventare un funzionario sindacale, senza prebende e promozioni, continuando nel contempo a lavorare, e avendo più fastidi che encomi – deve leggere questo libro. Fiengo è stato accusato di essere una quinta colonna del Pci – partito a cui era vicino da assoluto “eretico” senza tessera, partito con il quale ebbe scontri anche feroci e dal quale subì ostracismi anche pesanti – , di essere il capo del “soviet del Corriere”, di voler fare l’eminenza grigia. Un reportage di Panorama, in quegli anni di scontro asperrimo, lo accusava di essere “il diavolo in via Solferino”. Fiengo invece, a dirla tutta, aveva la colpa di essere un liberale. Un liberale vero, un illuminista, un utopista della ragione: uno che credeva che gestione giornalistica e gestione economica della testata dovessero essere rigorosamente separate. Uno che credeva che le notizie dovessero essere un servizio pubblico: verificate, corrette, non compiacenti.
Il cuore del potere è anche una disamina senza sconti e a ciglio asciutto, a volte nascondendo il magone e a volte senza riuscire a trattenere il divertimento, dei mille assalti alla diligenza, dagli anni di Giulia Maria Crespi in poi.
L’ingresso nella proprietà, sotto mentite spoglie – nella veste di fideiussore – della Montedison di Eugenio Cefis e, dietro questa, della Dc di Amintore Fanfani (con la clausola segreta, che giornalisti e poligrafici portano in tribunale, che il capo dell’economia non deve essere sgradito alla Montedison). Poi gli anni drammatici della loggia segreta P2, con Licio Gelli burattinaio, Roberto Calvi dell’Ambrosiano, la banca dei preti e della mafia (poi trovato impiccato sotto un’arcata del Blackfriars Bridge a Londra), che deteneva in pegno le azioni Rizzoli, mentre il Corriere diretto da Di Bella cercava di epurare la redazione (si leggano le pagine sulla tentata rimozione di Duilio Courir dalla critica musicale, di Roberto De Monticelli dalla critica teatrale e di Giovanni Grazzini da quella cinematografica, mentre il posto di Maurizio Calvesi nell’arte veniva preso da Giovanni Testori) e suonava la serenata ai militari e allo “stato forte” attaccando il governo (si vedano, il libro offre riproduzioni eloquenti e agghiaccianti, le pagine di sciacallaggio sul terremoto dell’Irpinia). L’avventura paragolpista della loggia segreta massonica porta il Corriere all’amministrazione controllata, ad anni di difficoltà economiche estreme e di forti tensioni interne: cerca di approfittarne Bettino Craxi per mettere le mani sul giornale (e Fiengo riceve una telefonata del Cinghialone che, per brevità, definirò minatoria), poi ritorna la Fiat, infine arrivano gli anni ’90 con l’arroganza berlusconiana, gli editti bulgari in Rai e, in via Solferino, la cacciata nel 2003 di Ferruccio De Bortoli.
Dire che gli arrembaggi, in molti casi, non abbiano avuto successo equivarrebbe a mentire. Ma nessun tentativo di assalto alla diligenza di via Solferino è riuscito a ottenere, spesso neppure in parte, quel che si prefiggeva. Ciò grazie all’opera tenace di contrasto dei giornalisti del Corriere e, spesso, grazie alla mite ma incoercibile ostinazione di Fiengo, anche quando era in minoranza fra i suoi colleghi. Lo statuto del Corriere della Sera, reso giuridicamente rilevante dall’essere stato frutto di una battaglia anche giudiziaria e di avere ottenuto, per così dire, il sigillo del tribunale, è stato una pietra angolare di questa battaglia. Costantemente notificato con “atto di significazione” dagli ufficiali giudiziari, nel corso degli anni, ai nuovi azionisti e proprietari, è servito da altolà. Rilevante anche il fatto che i giornalisti del Corriere della Sera, con un’azione a testa, abbiano delegato Fiengo a parlare nelle assemblee societarie del giornale (resta famoso un suo intervento in cui minacciava, in caso di decisioni non condivise, la vendita delle azioni dei giornalisti, concludendo: “E ricordatevi la storia di Mary Poppins, del penny che ha mandato a gambe all’aria la Banca d’Inghilterra”). Costante, infine, l’attività di controllo delle notizie inesatte e reticenti, delle omissioni e degli insabbiamenti, dalla strage di piazza Fontana ai “soffietti” di cui il cdr chiedeva regolarmente conto alla direzione, fino ai casi di “notizie di confine” (sull’alimentazione, per esempio) in cui si rischiava di scambiare un messaggio pubblicitario per una notizia.
Per tutte queste ragioni, Il cuore del potere è un libro importante, utile ai più giovani per sapere, ai più anziani per non dimenticare.