William Copley fu pittore e poeta, collezionista e mecenate, tenne insieme surrealismo e Pop art, i fumetti e Duchamp. Alla Fondazione Prada, una mostra racconta la sua storia.
È una foto del 1966. Ci sono René Magritte, Marcel Duchamp, Max Ernst e Man Ray. Stanno in piedi, uno accanto all’altro. Il Gotha del surrealismo. Un pezzo consistente della storia dell’arte del Novecento è allineato in carne e ossa, nello spazio di una fotografia. Hanno l’aria un po’ impacciata tanto comune ai frequentatori di vernissage. Sono ad Amsterdam. L’occasione che li ha riuniti è l’inaugurazione di una mostra di William N. Copley.
Difficilmente il nome di Copley fa scattare campanelli nella memoria. Tanto per dire, non esiste neppure una voce italiana di Wikipedia corrispondente al suo nome: damnatio memoriae del secolo di Google. Eppure alcuni dei maggiori pittori del Novcento si sono radunati per presenziare all’inaugurazione di una sua mostra.
Si potrebbe cominciare da qui per raccontare la vita bizzarra di William Copley, autodidatta di genio cui la Fondazione Prada, in collaborazione con la Menil Collection di Houston, dedica una mostra retrospettiva (la più grande mai realizzata sull’artista) curata da Germano Celant. Copley fu tante cose. Fu collezionista e gallerista, e poeta soprattutto, prima che pittore. E poi editore, instancabile promotore di iniziative culturali, mecenate. Fu erede di una dei più grossi imperi editoriali americani. Fu comunista, prima, anarchico, poi. Erotomane; marito di sei mogli.
Fu un bambino orfano, nato a New York City nel 1919. Venne adottato, due anni dopo, da Ira C. Copley, magnate dell’editoria, fervente conservatore, deputato repubblicano. Era proprietario di un paio di dozzine di quotidiani tra Chicago e la West Coast: una specie di Citizene Kane in piccola (ma neppure tanto piccola) scala. Seguono per William le scuole più elitarie, l’università aYale; l’esperienza della seconda guerra mondiale, l’attività politica in campo progressista.
Ad avvicinarlo al mondo artistico sarà il cognato John Ployard, disegnatore al servizio di sua maestà Mr. Walt Disney. Sarà lui a presentargli Max Ernst. Nel 1948, i due cognati aprono la Copley Gallerie a Beverly Hills, Los Angeles. Nel giro di pochi anni faranno esporre lì i maestri del surrealismo europeo, pressoché sconosciuti, allora, in America.
Una passione surrealista, quella di Copley, quasi fuori tempo massimo, che suona, con gli occhi e il senno del poi, quasi superata dalla storia. Alla Copley Gallery di Beverly Hills espongono Magritte, Tanguy, Max Ernst, Man Ray, Joseph Cornell: sono tutti, con l’esclusione di Cornell che è del 1903, uomini nati nell’Ottocento. Nel frattempo Copley ha avviato il suo personalissimo percorso artistico. Ha già scelto la sigla che lo accompagnerà per tutta la vita: CPLY. Così firmerà tutte le sue opere.
Negli anni Cinquanta si trasferisce a Parigi dove stringe i rapporti con Duchamp. Francis Picabia entra stabilmente tra le predilezioni di una vita: lo omaggerà nel 1978 con una suite di tele, tra le opere più belle in mostra, ispirate alla Nuit espagnole dipinta dal francese nel 1922. All’aprirsi del decennio successivo è di nuovo negli USA, a New York, in tempo per veder nascere la Pop Art e stringere rapporti con Andy Wharhol, Claes Oldenburg, Roy Liechtenstein.
Tra questi due poli si muoverà sempre il percorso di Copley: l’eredità surrealista europea da una parte, la Pop art americana dall’altro. Solo un personaggio per vocazione paradossale come Copley poteva riuscire nella sintesi di due poli apparentemente opposti. Da una parte la profondità oscura del subconscio, dall’altra la superficie scintillante delle cose.
Dai surrealisti ricava la centralità della sfera sessuale, ossessione sublimata in arte, basso continuo della sua produzione, da intonare sempre in bilico tra il ludico e l’onirico. Con i paladini del pop condivide un immaginario di beni di consumo, divi da rotocalco, bandiere che sventolano e campi da baseball da rovesciare sulla tela in piatte campiture di acrilico.
Non appartiene alla Pop art, però, la carica satirica, e quindi intrinsecamente politica, che innerva le sue opere. Sarà piuttosto da ricercare nel suo percorso biografico – rischiando la più banale delle letture edipiche – la ragione della passione iconoclasta che anima Copley. I simboli di ogni american way of life, di ogni Dio-Patria-Famiglia sono scardinati e ribaltati; su tutto domina una sessualità gioiosa che tutto pervade e tutto – gioiosamente – perverte. Patriottismo e pornografia si tengono insieme nel mondo di Copley.
Nasce così il ciclo dedicato all’«Unknown whore», la puttana ignota, vero eroe americano che allevia le sofferenze dei carcerati e guida, novella Libertà, il popolo sulle barricate. Non manca, è chiaro, il monumento funebre di ordinanza. La scena della fucilazione, da parte di un plotone di cardinali, non stonerebbe in una puntata di The Young Pope.
[La critica sociale di Copley si muove, però, sempre su toni lievi. Quanto è distante l’iperrealismo ultraviolento di Edward Kienholz, che pure muove da presupposti non troppo diversi. Lo si è visto (e in parte lo si vede ancora) alla Fondazione Prada stessa (ne abbiamo parlato qui). E la possibilità del confronto è un altro dei meriti di un programma espositivo ricchissimo].
La cultura di Copley è profondamente europea e profondamente americana insieme. Le citazioni dalla grande tradizione pittorica sono più numerose di quanto possa sembrare a un primo sguardo, tra Colazioni sull’erba e Nudi che scendono le scale (e non può mancare una personalissima interpretazione della «Sextine chapel»). Ma in misura ancora maggiore contano le ispirazioni tratte dal mondo dei fumetti e dei cartoon, come in tanta Pop art da venire: gli omini di Copley non sono poi molto diversi (e in anticipo di tre decenni) da quelli di Keith Haring. Ma tornano alla mente anche le illustrazioni di Mordillo, o persino la sintassi narrativa di Chris Ware (cioè: “Il Più Grande Disegnatore Vivente”: lui).
Copley non è un grande pittore, se pure non gli difetta una raffinata sensibilità compositiva e grafica (si veda per esempio la sala con le opere degli anni Ottanta, costruite lavorando sulle silhouettes). Il suo percorso e la sua figura, la sua attività di promotore culturale, di collettore di esperienze lontane, sono però di grande interesse.
Il percorso della mostra propone intelligentemente una scoperta in due tappe. Al piano superiore del Podium l’artista è presentato nel suo percorso biografico, incrociando materiali d’archivio, le sue prime opere e alcuni dipinti, già nella sua collezione, di artisti che lo hanno influenzato: Magritte, Ernst, Man Ray.
La scena si sposta quindi al piano inferiore dove un cospicuo numero di opere di Copley, organizzate in sale tematiche, occupa una installazione circolare montata all’interno dello spazio del Podium. Qui, invisibile dall’esterno, è la produzione di Copley a essere protagonista. Un allestimento di grande effetto scenografico e teatrale è quindi anche funzionale a un percorso curatoriale costruito con intelligenza. E la Fondazione Prada dimostra che, anche senza grandi artisti, si possono fare belle mostre.
Immagine di copertina: William Copley, The common market, 1961, New York, Moma.
William N. Copley, a cura di Germao Celant, Fondazione Prada, fino al 12 febbraio.