Di questo grande Paese dell’Asia Centrale sappiamo poco. All’Elfo, però, uno spettacolo raccoglie cinque istanze di altrettanti drammaturghi anglofoni e dà vita a un’operazione interessante…
C’era una volta il teatro didascalico, ma Afghanistan il grande gioco, la cui prima parte si recita all’Elfo fino al 5 febbraio, è una lezione con immagini, con video di grande bellezza (grazie a Francesco Frongia), con plus valore di stimoli fantastici e a volte a un passo dal cabaret istruttivo, un po’ come tanti anni fa era stato “Oh, che bella guerra!” sul primo conflitto mondiale, ed anche qui era un’operazione di sano cinismo britannico. Forse in inglese, questo Grande Gioco – che è anche il titolo del libro di Peter Hopkirk edito da Adelphi ma ha il copyright del cap. Arthur Connolly addì 1827 – ha una valenza ironica che va perduta, ma questa sarabanda storico geografica sociale del rapporto tra Afghanistan e uomini dell’Ovest prende in esame una storia che comincia da lontano ma finisce vicinissima a noi.
La prima parte del progetto che proseguirà nella stagione ventura si compone di 5 episodi che in ordine cronologico vanno dal periodo dell’invasione e indipendenza dal 1842 al 1930 (i primi 3 atti), mentre gli ultimi due sono siti nell’epoca del comunismo, dei Mujaheddin e dei Talebani, dal 1979 al 1996. Le potenze implicate, a parte gli afghani che però rischiano di essere sempre caratteristi non protagonisti, sono soprattutto quelle colonizzatrici, dalla Gran Bretagna alla Russia. Otto attori sgusciano fuori e dentro le tende, con baionette, sbucano dai panorami per raccontare in diretta la trappola dell’Afghanistan terra di montagne e tribù, incastrata in un difficile equilibrio geo politico. Da quegli inizi, da quelle invasioni ottocentesche, quando furono decimati uomini ed eserciti, inizia la storia che per Bruni e De Capitani, registi dell’allestimento complesso modulato sull’elastico palco della sala Fassbinder che accoglie paesaggi, tribù, soldati, guerre e paci, porta fino ai giorni nostri e all’Isis fra emiri, generali, capi della CIA che non mancano mai, agenti segreti e guerrieri pashtun, diplomatici in basette e baffoni, dividendosi tra personaggi di finzione e storici (gli attori sono Claudia Coli, Massimo Somaglino, Leonardo Lidi, Michele Radice, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Hossein Taheri, Emilia Scarpati Fanetti).
Nell’ultimo atto, il migliore per cadenza drammaturgica, Minigonne di Kabul di David Greig ci sono la scrittrice Claudia Coli che dialoga sotto le bombe col presidente dell’Afghanistan moderno Najibullah e il discorso verte anche sulla sociologia femminile: portavano le minigonne a Kabul? Una docu-fiction come dicono che coinvolge due secoli, da Kabul a Jalalabad, con la consapevolezza che se non hai seguito le prime puntate, proprio come in un serial, non capisce bene neppure le ultime. I 13 testi organizzati e commissionati nel 2009 dal Trycicle Theatre di Londra arrivano ora in Italia con 8 attori di totale impegno psicosomatico, tutti bravi e disponibili a giravolte storico morali, dando vita ad almeno venti personaggi visti in situazioni e angolazioni strane della storia: Enzo Curcurù ha davvero le phisique du role, sembra Omar Sharif anche se era partito dalle movenze efebiche di Salomè di Wilde.
Nel primo giro Stephen Jeffries in Trombe alle porte di Jalalabad racconta la prima guerra anglo indiana con la disfatta inglese del 1842, mentre La linea di Durand di Ron Hutchinson è un bellissimo dialogo tra l’emiro e un diplomatico inglese su come si costruisce una mappa con i confini e ci si chiede se i confini siamo virtuali o riflettano davvero la storia e la geografia. Questo è il momento di Joy Wilkinson è il momento di action, di spy story ed infatti i due cinefili registici hanno messo una bella musica tipo Bernard Herrmann mentre il re nel 1929 fugge in Rolls Royce (ma davvero spesso si fatica a distinguere tra reale e immaginario). Il pezzo più ragionato e cinico apre il secondo tempo, Legna per il fuoco di Lee Blessing ed è un dialogo tra il direttore della CIA e gli afgani che tramano contro i sovietici. Il gioco è anche delle parti e lo spettacolo parte e non si ferma, come una istruttiva lezione di quella materia formata da storia e geografia e storia dell’arte e filosofia, ed è quella che tutta insieme forma la storia dell’umanità, completa di tutte le follie e i giochi che questa cartina teatrale dell’Afghanistan promette, racconta, esalta.
(foto di Laila Pozzo)
Afghanistan: il grande sogno – I primi cinque episodi, al Teatro dell’Elfo fino al 5 febbraio